Nessuno ne parla, le barbarie in Yemen
A Roma votano contro e a Strasburgo votano a favore dell’interruzione di forniture militari italiane all’Arabia Saudita coinvolta in una guerra sporca con lo Yemen. I sistemi militari che vendiamo all’Arabia Saudita vengono usati anche per bombardare zone civili uccidendo donne e bambini inermi. Una doppiezza inaccettabile. I 400 milioni di armi vendute nell’ultimo anno sono più importanti della vita dei civili yemeniti, della pace e del disarmo”. Così Giulio Marcon, capogruppo dei deputati di Sinistra Italiana-Possibile, commenta la bocciatura dell’Aula di Montecitorio della mozione di Sinistra Italiana-Possibile sull’emergenza umanitaria e l’esportazione di armi verso i Paesi coinvolti in conflitti, come l’Arabia Saudita
La tragedia dello Yemen
Guerre dimenticate, morti che non fanno notizia, distruzioni e disperazioni purtroppo concrete e reali. L’accusa lanciata da Fausto Biloslavo a fine dicembre 2016 su Gli Occhi della Guerra è più che mai attuale in riferimento al conflitto civile che dal marzo 2015 insanguina lo Yemen e sinora ha causato oltre 16000 morti, di cui almeno 10000 civili, e oltre 3 milioni di sfollati su una popolazione di poco superiore ai 25 milioni di abitanti, devastando in maniera sistematica un Paese già da tempo classificato tra i più poveri del pianeta. Un conflitto che è tornato improvvisamente all’attenzione dei media internazionali per pochissime ore nella giornata di domenica 30 gennaio scorso, quando nel corso di un raid dei Navy Seals contro una base di Al Qaeda le forze armate statunitensi hanno subito la prima perdita dell’era Trump e nel quale, mentre vi si ode l’eco lontana del visa ban imposto dalla Casa Bianca, è oggigiorno letteralmente insabbiata l’Arabia Saudita, ambiguo alleato di Washington che il neo-Presidente sembra destinato a rivalutare. L’Arabia Saudita è infatti impegnata sin dall’inizio della guerra nel sostegno attivo al governo yemenita di Abdrabbuh Mansur Hadi e contrasta i ribelli del movimento sciita zaydita Ansar Allah, meglio conosciuti come Houthi, che controllano la capitale yemenita Sana’a, ove hanno istituito un autoproclamato Comitato Supremo Rivoluzionario.
Terzo incomodo nella contesa sono i gruppi jihadisti, prima fra tutti Al Qaeda, la cui filiale in Yemen controlla il governatorato di Hadhramaut, corrispondente a circa un terzo del territorio del Paese. Riyadh ha dispiegato in Yemen circa 150000 truppe e guida un’eterogenea coalizione formata da Paesi alleati all’Arabia Saudita che hanno fornito supporto aereo (Kuwait, Qatar, Giordania) o truppe di terra (come è il caso di Marocco, Sudan e Senegal). La situazione sul terreno vede oggi gli Houthi attestati nella parte più occidentale dello Yemen e le forze sostenute dalla coalizione a guida saudita controllare città strategiche come i porti di Aden ed al-Mukalla, nel sud del Paese, ove imperversa quella che di fatto si struttura come una “guerra per procura” tra Riyadh e Teheran. Nonostante le reiterate smentite sul suo coinvolgimento, infatti, l’Iran ha un forte interesse nel parteggiare apertamente per la causa degli Houthi, in quanto la resistenza delle loro forze tiene in scacco consistenti contingenti del suo grande rivale regionale, logorandone inoltre le ambizioni su un’area strategicamente importantissima: con il suo sbocco diretto sul Mar Rosso e sul cruciale Golfo di Aden, infatti, lo Yemen si trova a cavallo di un importante crocevia commerciale e delle rotte di comunicazione tra il Medio Oriente, la Penisola Araba e il Corno d’Africa. L’esperto di geopolitica Antony H. Cordesman, in un’analisi realizzata nel 2015 per il Center for Strategic and International Studies (CSIS) ha inoltre evidenziato come l’Arabia Saudita possa prendere in considerazione uno sfruttamento dei porti e dei territori yemeniti per sviluppare infrastrutture destinate a bypassare lo Stretto di Hormuz, oggigiorno principale “collo di bottiglia” dei traffici di petrolio e gas provenienti dal Golfo Persico, amplificando l’attuale rete basata sulla East-West Pipeline di circa 1200 chilometri che collega il complesso Abqaiq col Mar Rosso. Inoltre, secondo Cordesman, tra le ragioni che potrebbero avere spinto Riyadh a intervenire nel conflitto in Yemen potrebbero celarsi numerosi calcoli connessi alla stabilità interna del regno wahabita: il timore di ritrovarsi con uno Yemen governato da una forza politico-militare ostile, infatti, avrebbe catalizzato l’interventismo dell’Arabia Saudita che, in ogni caso, non ha fatto altro che portare una situazione già tendenzialmente insostenibile a precipitare definitivamente. La devastazione a cui lo Yemen è andato incontro è percepibile analizzando alcuni dati che Cordesman non ha mancato di segnalare nella sua analisi: lo Yemen presenta da un lato uno dei tassi di crescita demografici più elevati al mondo e una popolazione composta per la stragrande maggioranza di persone sotto i 24 anni (63% del totale), ma si trova al tempo stesso privo di qualsivoglia prospettiva realistica per il futuro. La guerra, l’instabilità politica e la depressione economica hanno infatti creato un contesto in cui spiccano i desolanti dati sul tasso di disoccupazione (vicino al 35%) e sul numero di abitanti viventi sotto la soglia di povertà (superiore al 45%): nei fatti, ciò ha contribuito a trasformare lo Yemen in uno dei terreni di coltura più fertili per la germogliazione dei semi deli jihadismo e del radicalismo, che nel Paese si sono sviluppati progressivamente mano a mano che lo smantellamento delle istituzioni politiche e del tessuto sociale dello Yemen proseguiva ininterrotto.
Allo stato attuale, il conflitto vive una fase decisamente interlocutoria, caratterizzata da uno status quo precario e dimostratosi insostenibile a causa del fallimento di tutti i tentativi di negoziare dei cessate-il-fuoco prolungati: tutti i tentativi delle forze lealiste di scalzare gli Houthi dalle loro roccaforti occidentali e dalla capitale Sana’a si sono rivelati fallaci, mentre al contempo l’Arabia Saudita si è trovata di fronte all’impossibilità di controllare la sua frontiera di oltre 1.400 chilometri con lo Yemen e al coinvolgimento nel conflitto delle sue regioni di confine, più volte bersagliate dagli attacchi balistici dei ribelli che hanno provocato circa 500 vittime.
Il conflitto yemenita vede la coalizione a guida saudita ricevere sostegno attivo da almeno tre nazioni occidentali: se infatti il Regno Unito e la Francia, in ossequioso rispetto alla loro pluridecennale amicizia con la casa dei Saud cementata a lungo attraverso lo scambio tra contratti d’affari miliardari e Legioni d’Onore, hanno garantito un appoggio logistico alla coalizione guidata da Riyadh, anche se Londra appare essersi smarcata negli ultimi mesi, gli Stati Uniti sono entrati direttamente nel conflitto operando sia contro i ribelli Houthi che contro i gruppi qaedisti. Anche nei momenti di maggiore flessione della storica sintonia tra Riyadh e Washington a causa degli abboccamenti statunitensi con Teheran, l’amministrazione Obama non ha mai fatto mancare un concreto sostegno alle azioni del suo alleato, portando avanti la cooperazione nell’ambito del Joint Planning Cell istituito nel marzo 2015 e contribuendo al discusso blocco navale volto a impedire i rifornimenti di armi agli Houthi.
Dopo la sua entrata in carica, l’amministrazione Trump ha seguito la linea di intervento inaugurata da Obama: il presidente repubblicano, nonostante le dichiarazioni ostili a Riyadh pronunciate in campagna elettorale, ha deciso di puntare sul cavallo saudita in funzione di contrasto all’Iran, che alcuni suoi top advisors come il Generale Michael T. Flynn considerano l’avversario strategico numero uno, e proseguire una sintonia commerciale e affaristica ben dimostrata dai 115 miliardi di dollari in armamenti acquistati da Riyadh negli ultimi otto anni. Rudy Giuliani, Consulente per la Sicurezza Informatica di Trump, ha confermato in un’intervista a Fox News come la mancata inclusione dei cittadini sauditi nel visa ban sia funzionale a un preciso disegno strategico, dato che l’Arabia Saudita è stata tutelata per i suoi legami con Israele e per la sua utilità in funzione anti-iraniana. Nello scenario yemenita, dopo il recente naufragio degli ultimi colloqui di pace di novembre, gli Stati Uniti sembrerebbero essere destinati a conoscere un crescente coinvolgimento che secondo il parere espresso dal giornalista David Swanson a Russia Today potrebbe contribuire a una nuova escalation del conflitto. Tra i maggiori fautori della continuazione del coinvolgimento americano in Yemen si posizionerebbe con ogni probabilità Erik Prince che, come ha riportato Michele Crudelini su Gli Occhi della Guerra, avrebbe ricoperto un importantissimo ruolo di consulenza per la scelta dei membri dell’amministrazione Trump e in precedenza, da Ceo della compagnia militare privata Blackwater, ha attivamente collaborato col governo degli Emirati Arabi Uniti, i quali hanno arruolato centinaia di mercenari colombiani da inviare a combattere in Yemen a partire dal 2015.
Lo Yemen si trova, allo stato attuale delle cose, di fronte a scarse prospettive di un rapido ritorno alla normalità. Il Paese viene oggigiorno insanguinato da uno stillicidio di scontri tra i contendenti del conflitto civile, inframezzati dalle operazioni condotte dai jihadisti, che seppur stentando a inserirsi in un quadro strategico sistemico aggiungono decine di morti a un conto già di per sé salatissimo.
L’1 febbraio, ad esempio, 80 soldati sauditi ed emiratini sono stati uccisi in un attacco missilistico contro un campo d’addestramento, come riportato dall’agenzia iraniana Fars, mentre a inizio gennaio i raid aerei della coalizione hanno ucciso almeno 55 civili in due giorni nel corso delle operazioni dei lealisti volte a prendere il controllo della regione circostante la città di Dhubab. Morti dimenticati da una parte e dall’altra in una guerra dimenticata senza eroi, senza allori e senza onore, in un Paese che nel 2017 rischia di sprofondare in una catastrofe umanitaria senza precedenti. Il responsabile degli Affari Umanitari delle Nazioni Unite Stephen O’Brien ha infatti riportato come in Yemen 10,3 milioni di persone necessitino di assistenza immediata, 2,2 milioni di bambini soffrano la fame e, in media, ogni dieci minuti un minore di 5 anni muore per cause potenzialmente prevenibili. A peggiorare la situazione ha contribuito il completo blocco delle vie di accesso di un paese completamente dipendente dalle importazioni alimentari, come scritto da Damiano Mattana su In Terris lo scorso 27 gennaio. Lasciato solo a sé stesso, lacerato dagli scontri tra due contendenti che non hanno saputo portare avanti una road map di riappacificazione e oggetto dei grandi giochi della geopolitica internazionale, lo Yemen si è ritrovato totalmente travolto: se attualmente risulta chimerica qualsiasi prospettiva di riappacificazione e di fine del conflitto civile, è impossibile prevedere in che modo si potrà dare un futuro a un Paese afflitto dalla fame e dalla miseria, in cui una popolazione per la stragrande maggioranza di giovane età si trova di fronte alla completa mancanza di prospettive ed oggetto della subdola propaganda dell’islamismo radicale.
fonte Gli Occhi della Guerra