(di Giovanni Ramunno) La mossa in due fasi del presidente della Federazione Russa, di annettere prima la Crimea e poi invadere l’Ucraina, è un chiaro segnale del Cremlino di voler ristabilire, almeno in Europa, le sfere di influenza, perché ritenute ancora un fatto incontrovertibile della geopolitica.
Per raggiungere i suoi obiettivi, la Russia è convinta di poter utilizzare la forza per ottenere quello che gli esperti occidentali chiamano “dominio dell’escalation” in Europa e Asia, contando peraltro sul fatto che la Nato è una alleanza difensiva e che pertanto il suo articolo 5 non condiziona la manovra russa.
Ad ispirare questa visione imperialistica al Presidente Putin, il suo consigliere Karaganov, secondo il quale la priorità di ogni grande potenza è di garantire sicurezza e prosperità all’interno di una sfera di influenza sugli Stati limitrofi, ignorando dunque il primato della sovranità degli Stati stessi. In questa particolare accezione visione, le élite politiche dei popoli dei Paesi della ex Unione Sovietica sono prive degli elementi storico valoriali che li dovrebbero caratterizzare, necessitando così di un’autorevole guida russa in grado di dirigere e coordinare il bene comune di questi popoli.
Le dinamiche geopolitiche che le diplomazie Occidentali affrontano in questi anni osservando le violenze, perpetrate in Cecenia, Georgia, Bielorussia e Ucraina dal loro scomodo e ingombrante vicino, sono, come diceva Kennan nel suo famoso Long Telegram, “…così intricate, così delicate, così estranee alla nostra forma di pensiero e così importanti per l’analisi del nostro ambiente internazionale”.
Kennan in particolare consigliava a Charles Bohlen, interprete e consigliere principale per l’Unione Sovietica del presidente Franklin Roosevelt il 4 febbraio 1945 a Yalta, una divisione dell’Europa in sfere d’influenza. Bohlen era contrario perché convinto che “Una politica estera di questo tipo non può esser condotta in democrazia”, ma in due anni si dovette rassegnare.
Gli esiti li conosciamo: un dignitoso e definitivo compromesso che garantì a Stalin di dividere l’Europa in sfere di influenza e che, per i quattro decenni che seguirono, vide gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica affrontarsi nella grande sfida di potenza che conosciamo come Guerra Fredda.
Nella sfera sovietica, le nazioni prigioniere dell’Europa orientale sono rimaste sotto il dominio di un “impero del male” e i presidenti americani hanno affrontato ripetutamente crisi in cui hanno dovuto scegliere tra l’invio di truppe nelle nazioni dominate dai sovietici per sostenere la libertà e l’esercizio di diritti che l’Occidente dichiara universali.
Per questo, senza eccezioni, Dwight Eisenhower, quando insorsero gli ungheresi nel 1956, e Lyndon Johnson, durante la Primavera di Praga del 1968, hanno scelto di non intervenire in difesa dei popoli oppressi e i cui diritti venivano calpestati da un regime comunista spietato, perché consapevoli che una guerra nucleare non può essere vinta: una verità inaccettabile, ma innegabile, benché, parafrasando Bohlen, i popoli che avevano combattuto una lunga, dura guerra, meritassero almeno di cercare di elaborare un mondo migliore.
Passarono quasi cinque anni dal primo avviso di Kennan prima che il documento programmatico NSC-68 finalmente delineasse una strategia globale. Ora come allora, la unica linea di azione perseguibile (sviluppata a pagina 54 del documento del Consiglio di Sicurezza americano) era rappresentata da una vigorosa offensiva politica del mondo libero contro l’Unione Sovietica e il rafforzamento di un adeguato sistema economico e difensivo da parte degli stati Uniti e dei suoi alleati in grado di dissuadere l’avversario.
Indubbiamente la strategia, che sorprende per la sua geniale chiarezza e semplicità, non è cambiata.
Il mondo libero ha necessità di serrare i ranghi e condurre una nuova e robusta offensiva politica, rafforzando al contempo la propria resilienza economica e militare anche in considerazione di una più decisa azione intrapresa da un’autocrazia molto più assertiva rappresentata dalla Cina. Per l’Europa è tempo di raggiungere una nuova consapevolezza politica e identitaria che le consenta di abbandonare logiche che appartengono ad un mondo ormai passato, affermandosi come attore geopolitico credibile.
Più in generale, se i responsabili politici americani riuscissero a trovare un modo per consentire agli interessi strategici di orientare la politica, rientrando nel Trans-Pacific Partnership (TPP), e se ritrovasse vigore il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti, fra Stati Uniti e Unione Europea, quasi il 70 percento del PIL mondiale potrebbe sostenere gli ideali del mondo libero, contro quello delle autocrazie, che si attesterebbe al 20 per cento.
Il mondo ha visto un rinnovato impulso di dinamiche rissose e solo apparentemente scoordinate, creando un disorientamento cognitivo nelle opinioni pubbliche, che talvolta dimenticano i valori che le sostengono, e un affievolimento nella incisività politica volta a contrastare un autoritarismo nazionalista più virulento.
Nella realtà, la partita è ancora aperta e il mondo libero è ancora nelle condizioni di dettare le regole del gioco, se non addirittura condurre una nuova dottrina Reagan riprendendo una strategia, quella statunitense del 1968, che la storia ha dichiarato sicuramente vincente.