di Antonio Adriano Giancane
La globalizzazione è spesso percepita come un fenomeno legato principalmente ai mercati e al consumo, dove merci, servizi e capitali si muovono liberamente attraverso i confini nazionali.
Il termine globalizzazione è spesso usato, come sinonimo di liberalizzazione, per indicare la progressiva riduzione, da parte di molti paesi, degli ostacoli alla libera circolazione delle merci e dei capitali. Questo, tuttavia, è solo un aspetto dei fenomeni della globalizzazione, che comprendono, in particolare, una tendenza al predominio sull’economia mondiale da parte di grandi imprese multinazionali, operanti secondo prospettive sempre più autonome dai singoli Stati, e una crescente influenza di tali imprese, oltre che delle istituzioni finanziarie internazionali, sulle scelte di politica economica dei governi, in un quadro caratterizzato dall’aumento progressivo dell’integrazione economica tra i diversi paesi, ma anche dalla persistenza o addirittura dall’aggravamento) degli squilibri fra questi.
Ridurre la globalizzazione a un semplice processo economico sarebbe limitante. La globalizzazione è anche, e forse soprattutto, un potente vettore di scambio culturale e informativo, che ha trasformato il nostro modo di vivere, pensare e interagire con il mondo.
Tuttavia, senza addentrarsi nelle diverse scuole di pensiero che descrivono i pro e i contro di questo oramai inevitabile fenomeno, possiamo sicuramente affermare che negli ultimi decenni, la globalizzazione ha ridefinito profondamente il mondo in cui viviamo, creando una rete di interconnessioni tra nazioni e culture che non ha precedenti nella storia umana. Questa trasformazione ha avuto un impatto particolarmente rilevante sulle nuove generazioni, che si sono trovate a crescere in un contesto dove informazioni e idee circolano liberamente oltre i confini nazionali, alimentate da una tecnologia in continua evoluzione e dalla diffusione capillare dei social media. Per i regimi autoritari, in particolare, questa nuova realtà rappresenta una sfida sempre più ardua da gestire e, soprattutto, da controllare.
I giovani di oggi, spesso più aperti al cambiamento e fortemente influenzati dalle dinamiche globali, tendono a sviluppare valori e aspirazioni che contrastano con le rigide narrative ufficiali promosse dai governi totalitari. La facilità con cui possono accedere a notizie, cultura e movimenti sociali provenienti da ogni angolo del pianeta, mina l’efficacia della propaganda di Stato e mette in discussione l’autorità dei leader totalitari. Questa evoluzione non solo erode il potere di controllo degli autocrati, ma alimenta anche nuove tensioni all’interno delle società, specialmente tra i giovani militari chiamati a reprimere con la forza le proteste.
In un’era in cui l’informazione viaggia oltre i confini nazionali con la velocità di un clic, anche i giovani soldati, che dovrebbero essere strumenti del potere, sono esposti alle stesse influenze globali che modellano le mentalità civili. Cresciuti in un mondo interconnesso, questi militari non sono immuni ai valori di libertà, diritti umani e giustizia sociale che permeano il discorso globale. Attraverso internet e social media, possono accedere a informazioni non filtrate, osservare le dinamiche delle proteste in altre parti del mondo e persino entrare in contatto con movimenti che sfidano l’autorità dei regimi sotto cui servono. Questo flusso costante di informazioni può generare conflitti interiori, spingendoli a mettere in dubbio la legittimità degli ordini ricevuti e la giustizia delle azioni richieste loro.
L’accesso diretto alle opinioni e alle esperienze globali può inoltre risvegliare sentimenti di empatia e solidarietà con i manifestanti, specialmente quando le rivendicazioni di questi ultimi rispecchiano aspirazioni universali di libertà e diritti. I militari, dunque, possono trovarsi divisi tra il dovere di obbedire agli ordini e il riconoscimento delle legittime richieste di cambiamento provenienti dalla popolazione civile, che potrebbe includere amici, familiari o membri della stessa generazione.
Nei paesi dove la libertà di espressione è fortemente limitata, internet e i social media sono diventati strumenti potenti per l’organizzazione e la mobilitazione delle proteste. I giovani sfruttano queste piattaforme per denunciare ingiustizie, condividere informazioni non censurate e creare reti di solidarietà che superano i confini nazionali. Questi movimenti digitali possono facilmente evolversi in manifestazioni concrete, esercitando una pressione crescente sui regimi autoritari, costretti a confrontarsi con una popolazione sempre più consapevole e determinata a lottare per i propri diritti.
Un esempio significativo di questa dinamica si è visto recentemente in Bangladesh, dove l’esercito, inizialmente schierato a sostegno del governo di Sheikh Hasina, ha cambiato rotta sotto la nuova leadership del generale Waker-Uz-Zaman. Durante un incontro interno, molti ufficiali hanno espresso il loro dissenso sull’uso della forza contro i manifestanti, spingendo Waker a dichiarare che l’esercito avrebbe sostenuto il popolo. Questa presa di posizione ha portato Hasina a dimettersi e a lasciare il paese, segnando una svolta influenzata sia dalla pressione internazionale sia dal crescente malcontento tra i giovani ufficiali. La decisione dell’esercito di non dichiarare, per il momento, la legge marziale è stata un atto pragmatico, volto a evitare l’isolamento internazionale e a sfruttare l’opportunità di riparare le relazioni diplomatiche con paesi come gli Stati Uniti, danneggiate durante il regime di Hasina.
Concludendo possiamo dire, con ragionevole certezza, che di fronte a questa realtà, i regimi oppressivi si trovano sempre più in difficoltà a isolare e reprimere le proprie popolazioni, con le fondamenta del loro potere che si indeboliscono progressivamente. Ma oltre a essere una sfida, la globalizzazione offre anche la speranza di un futuro più libero, in cui i diritti umani e la dignità individuale possano finalmente prevalere su ogni forma di repressione.
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