Assad in fuga verso Mosca o Teheran: la caduta di un regime

di Emanuela Ricci

Bashar al Assad, presidente della Siria da quasi venticinque anni, appariva saldo al potere, protetto dai suoi storici alleati Iran e Russia, e che ora, sotto i colpi di una sorprendente offensiva anti-governativa, si ritrova improvvisamente solo, isolato e costretto a confrontarsi con una realtà che potrebbe segnare la fine del regime al potere dalla fine degli anni Sessanta.

La storia politica di Bashar al Assad è indissolubilmente legata a quella del padre, Hafez al Assad, figura centrale della politica siriana per oltre trent’anni. L’ascesa della famiglia Assad comincia negli anni ‘60, con l’emergere della classe militare alawita, una corrente dello sciismo, tradizionalmente minoritaria in Siria. Hafez al Assad, astuto e determinato, riuscì a scalare le gerarchie militari e politiche fino a prendere il potere con un colpo di Stato nel novembre del 1970. Questo segnò l’inizio di una nuova era per la Siria, un’epoca di autoritarismo e stabilità forzata che avrebbe consolidato il potere del partito Baath e trasformato il Paese in uno degli attori più influenti del Medio Oriente.

La successione dinastica degli Assad fu però frutto di una tragedia. Nel 1994, la morte improvvisa di Bassel al Assad, il figlio maggiore di Hafez e principale erede designato, costrinse il secondogenito Bashar a rientrare in patria da Londra, dove conduceva una vita agiata e studiava oftalmologia. La morte di Bassel costituì un momento spartiacque: Bashar fu richiamato in Siria per iniziare un intenso percorso di formazione militare e politica, precondizione necessaria per guadagnarsi il rispetto delle élite militari e per ereditare il potere. La morte di Hafez nel giugno 2000 accelerò il processo. Il parlamento siriano, controllato dal partito Baath, emendò rapidamente la costituzione abbassando l’età minima per diventare presidente da 40 a 34 anni. Bashar al Assad giurò fedeltà alla costituzione appena modificata, avviando così la sua presidenza.

Fin dai primi anni al potere, Bashar al Assad si trovò di fronte a sfide interne ed esterne di enorme portata. In patria, le aspettative di una nuova generazione di siriani si scontrarono con la realtà di un regime che, nonostante le promesse iniziali di apertura e modernizzazione, rimase autoritario. La cosiddetta Primavera di Damasco, un periodo di fermento riformista tra il 2000 e il 2001, si spense rapidamente sotto una dura repressione. Attivisti politici, giornalisti e oppositori furono arrestati, mandando un chiaro segnale che il regime non avrebbe tollerato dissidenza.

Sul piano internazionale, Bashar dovette navigare attraverso crisi che avrebbero segnato la Siria per decenni. Il ritiro israeliano dal sud del Libano nel maggio 2000, la guerra in Iraq del 2003 e la conseguente ascesa di milizie settarie cambiarono gli equilibri regionali. Assad, nel tentativo di mantenere un ruolo di primo piano, si avvicinò sempre di più all’Iran, consolidando un’alleanza che si sarebbe rivelata fondamentale negli anni successivi. La guerra tra Hezbollah e Israele nel 2006 cementò ulteriormente la posizione della Siria come anello chiave del cosiddetto “asse della resistenza” filo-iraniano.

Ma la vera svolta arrivò nel 2011 con lo scoppio della Primavera Araba. Le proteste iniziate in Tunisia e diffusasi in tutto il Medio Oriente non risparmiarono la Siria. A marzo di quell’anno, manifestazioni pacifiche esplosero a Daraa, nel sud del Paese, chiedendo riforme politiche e la fine della corruzione. La risposta del regime fu brutale: repressioni violente, arresti di massa e uccisioni indiscriminate trasformarono rapidamente le proteste in una guerra civile. Le comunità sunnite si sollevarono contro il governo dominato dagli alawiti, mentre milizie jihadiste e ribelli sostenuti da potenze straniere iniziarono ad avanzare.

Il conflitto, che presto divenne un’arena di interessi regionali e internazionali, vide l’ingresso diretto di Iran, Russia e delle milizie Hezbollah a sostegno di Assad. Nel 2015, l’intervento militare russo segnò una svolta decisiva, permettendo al regime di riconquistare aree chiave e di stabilizzare il controllo su Damasco e Aleppo. Tuttavia, la Siria rimase un Paese devastato, con milioni di sfollati interni e rifugiati all’estero, un’economia al collasso e infrastrutture distrutte.

Negli ultimi anni, Assad sembrava aver riconquistato una fragile stabilità. Con l’allentamento dell’isolamento diplomatico, il regime aveva ripreso contatti con alcuni Paesi arabi e migliorato le relazioni con attori regionali come gli Emirati Arabi Uniti. Tuttavia, questa fragile ripresa è stata improvvisamente scossa dall’offensiva iniziata il 27 novembre. La sorprendente avanzata degli insorti filo-turchi e dei gruppi jihadisti, tra cui Hayat Tahrir al-Sham, ha portato alla caduta di Suwayda e al controllo quasi totale della provincia di Daraa. Questi sviluppi hanno evidenziato l’indebolimento senza precedenti delle forze siriane, logorate da anni di conflitto.

A complicare ulteriormente la situazione, il progressivo ritiro iraniano. Secondo fonti citate dal New York Times, l’Iran ha iniziato ad evacuare il proprio personale militare e diplomatico dalla Siria, trasferendo comandanti della Forza Quds, funzionari e famiglie nei vicini Libano e Iraq o direttamente a Teheran. Questo segnale è particolarmente significativo: sebbene il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi abbia ribadito che Teheran continuerà a sostenere la Siria “qualsiasi cosa serva”, i fatti suggeriscono una realtà diversa.

L’offensiva ribelle e l’indebolimento degli alleati storici hanno portato il regime di Assad a una delle fasi più critiche della sua storia. La caduta di Suwayda e la perdita quasi totale della provincia di Daraa rappresentano colpi devastanti per il regime, mentre le forze armate siriane sembrano incapaci di contenere l’avanzata. I riposizionamenti strategici annunciati dall’esercito non sembrano sufficienti a fermare un’offensiva che avanza rapidamente verso Damasco.

Il futuro di Bashar al Assad e della Siria è più incerto che mai. La minaccia jihadista, come avvertito dall’Iran, potrebbe estendersi oltre i confini siriani, destabilizzando ulteriormente il Medio Oriente. Ma al di là della retorica, la realtà è che il tempo sembra scaduto per il raìs di Damasco. Dopo un quarto di secolo al potere, Assad potrebbe trovarsi di fronte alla stessa sorte che molti avevano predetto all’inizio della guerra civile: la fine di un regime che, per decenni, ha dominato la Siria con il pugno di ferro.

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