“La Cina non può permettersi di lasciare che Hong Kong si trasformi in forza catalizzatrice di pressione e di rivolta, in nome di una vera democrazia”. Padre Bernardo Cervellera, missionario del Pime (Pontificio Istituto Missioni Estere), direttore dell’agenzia specializzata Asia-News, profondo conoscitore del mondo cinese (il sito di Asia News ha una edizione in mandarino che rappresenta un punto di riferimento per i cristiani del gigante asiatico) analizza in una intervista a “Libero Quotidiano” la situazione, sempre più difficile, della ex colonia britannica e le prospettive, inquietanti, di quello che potrebbe accadere, soprattutto se la Cina decidesse di intervenire ufficialmente. La cronaca registra un nuovo weekend di proteste, con migliaia di docenti che hanno aperto le manifestazioni in un clima di altissima tensione, ieri addirittura un milione di persone è sceso in piazza, mentre centinaia e centinaia di mezzi blindati e di unità paramilitari cinesi sono riuniti a Shenzhen, a pochi chilometri da Hong Kong. Ormai è palpabile l’irritazione di Pechino per quanto sta avvenendo.
A questo punto si valutano le prossime mosse del regime cinese. “Da oltre due mesi a Hong Kong le manifestazioni sono sempre più vaste, sono arrivate a coinvolgere almeno due milioni di persone, giovani, in maggioranza, ma non solo. Ogni sfera sociale si sente chiamata in causa: insegnanti, impiegati, avvocati, imprenditori, persino poliziotti. E stata la richiesta di annullare la legge sull’estradizione a dare inizio alle proteste, perché è stata interpretata come il passo decisivo per trasformare Hong Kong in una delle tante altre città cinesi, perdendo per sempre la sua specificità. All’inizio la protesta era considerata tollerabile, si credeva di poterla tenere sotto controllo. Ma, di settimana in settimana, la violenza nel reprimerla ha subito una preoccupante escalation, mentre le richieste, da parte dei contestatori, sono diventate più pressanti, più forti”. “Certo, la verità è che è in gioco il futuro democratico dell’ex colonia britannica. Questo futuro doveva essere realizzato fin dal 2007, secondo gli accordi tra Gran Bretagna e Cina, ma la piena attuazione di un governo democratico è slittato fino al 2017 e a tutt’oggi rimane rimane lettera morta. Questo ha creato grandi aspettative, poi grandi frustrazioni e paura, incertezza, rabbia. D’altra parte, Pechino sa bene che se Hong Kong diventa effettivamente democratica si trasforma in una spina nel fianco del regime. Deve quindi tentare di soffocare ogni tentativo di rendere concreta questa prospettiva”.
Ufficialmente non si vedono azioni di forza. Ma la Cina non sembra voler restare a guardare. “I segnali – spiega il direttore – sono purtroppo chiari. Innanzitutto le decine di migliaia di forze antisommossa ammassate a Shenzhen, con la scusa di esercitazioni varie. Solo un modo per mostrare i muscoli? E’ probabile però che quelle forze saranno usate, se la pressione delle proteste dovesse aumentare. E poi crescono di giorno in giorno le accuse verso i manifestanti, dal terrorismo alla collusione con ‘forze straniere’ che li manipolano. La campagna di disinformazione funziona a pieno ritmo, si moltiplicano le fake news, facendo leva sul nazionalismo dei cinesi. E la censura è sempre più ferrea, e chi tenta di far passare notizie “alternative” rischia veramente grosso”. Sono confermate le accuse di infiltrazioni di poliziotti cinesi nelle forze dell’ordine di Hong Kong. “Da Shenzhen vengono mandati poliziotti cinesi, che entrano in azione indossando la divisa della polizia locale. Questo potrebbe anche giustificare il fatto che quest’ultima, famosa per il suo fair play, sia diventata più aggressiva e violenta. Per questo tra le richieste dei manifestanti c’è anche quella di avviare un’indagine indipendente per far luce su queste infiltrazioni. E poi sono già entrati in azione ‘teppisti’ che aggrediscono senza pietà la gente in corteo, che potrebbero appartenere a gruppi mafiosi. Del resto, il regime cinese di norma preferisce delegare ai teppisti e a mafiosi le azioni più sporche, come intimidazioni, pestaggi, rapimenti…”.
Sono fondati i timori che possano essere scatenate repressioni sanguinose, che possa esserci una nuova Tienanmen. “Indubbiamente la Cina non è più isolata come negli anni Ottanta, e sta vivendo un momento di difficoltà nei rapporti internazionali, quindi questo farebbe pensare all’uso di una maggiore prudenza. I segnali però non sono incoraggianti. Il Global Times, tabloid prodotto dal quotidiano del regime, in un editoriale di due giorni ha proprio fatto cenno a Tienanmen, senza citarla esplicitamente – è un argomento tabù – ma riferendosi ai ‘fatti del 4 giugno 1989′ ha spiegato che non si ripeteranno. “E’ comunque inquietante – continua – che si sia fatto questo riferimento. In Cina esiste una forte pressione, anche se viene nascosta, verso cambiamenti sociali, economici, politici, e se il partito comunista si sentisse realmente minacciato non credo esiterebbe a reagire come successe in quel fatale 4 giugno 1989”. “E c’è un altro inquietante parallelismo – conclude Cervellera – con quei tragici eventi e quel che sta accadendo oggi. Carri Lam, la contestatissima governatrice di Hong Kong, da due mesi si rifiuta di incontrare i manifestanti. Era successa la stessa cosa con gli studenti di Tienanmen, che dal 15 aprile fino al giorno del tragico epilogo non furono ricevuti da nessuna autorità governativa”, ha concluso Cervellera.