Molto interessante la recensione fatta da La Stampa sull’ultimo libro di Roberto Battiston “Fare spazio” (La nave di Teseo, 290 pagine, 15 euro).
Battiston, già presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana dal 2014 al 2018, sulla “space economy” ha dedicato un interessantissimo capitolo.
Oggi lo spazio vale 350 miliardi di dollari l’anno. Il 37 per cento del fatturato riguarda i servizi via satellite. Quattro quinti dei servizi satellitari sono rappresentati dalle telecomunicazioni e dal mercato televisivo: nel 2018 gli utenti tv erano due miliardi ma importanti sono anche Internet e la telefonia via satellite. Fondamentali sono e saranno i servizi di geolocalizzazione e navigazione, sorveglianza dallo spazio, telerilevamento di risorse, meteorologia.
Gran parte dei quattromila satelliti in orbita intorno alla Terra hanno rilevanza economica, solo una minoranza è al servizio della scienza pura.
Ricordate Telstar, segna la “space economy” storica. Il Telstar 1 lanciato da Cape Canaveral il 10 luglio del 1962, è stato il primo satellite che abbia reso possibili trasmissioni in mondovisione.
Oggi Telstar fa tenerezza: era una sfera di 88 centimetri e 35 chilogrammi che conteneva 1064 transistor, poteva ospitare 1200 canali telefonici o, in alternativa, un canale televisivo. In orbita ellittica tra 952 e 6000 chilometri, funzionò a intermittenza per sei mesi, fino al febbraio 1963.
Vantaggi e rischi di uno spazio privatizzato
Al seguito dell’impiego di denaro pubblico Battiston osserva che se oggi si può parlare di “space economy” lo dobbiamo agli enormi investimenti che le agenzie spaziali statali hanno fatto con costanza per più di cinquant’anni, in particolare la Nasa, ma anche l’Agenzia Spaziale Europea e agenzie nazionali minori, Italia inclusa. Senza i contributi delle agenzie russa, giapponese e canadese la Stazione Spaziale Internazionale non sarebbe quella che è, una specie di ONU in orbita.
Il razzo Falcon 9 di Musk e il denaro pubblico hanno spianato la strada alla nascente economia dello spazio. E’ normale che sia così: il capitale privato per definizione corre dei rischi, ma non rischi troppo grandi, come quelli che ha dovuto affrontare l’astronautica nei suoi primi sviluppi: basti pensare che le missioni Apollo assorbivano il 4 per cento del Pil degli Stati Uniti e avevano soltanto una probabilità su due di successo. Anche le attività spaziali private americane hanno collezionato i loro insuccessi, ma adesso sembra che abbiano raggiunto la maturità.
È stato impressionante vedere il primo stadio del Falcon 9 di Musk partire dalla rampa 39 A di Cape Canaveral (quella del Saturno 5 e dello Shuttle), portare in orbita geostazionaria un satellite per telecomunicazioni e rientrare a terra posandosi in verticale sulla sua piattaforma. I vettori recuperabili stanno inaugurando davvero una nuova era dell’astronautica che avrà grandi riflessi sulla “space economy”.
Il turismo spaziale perseguito da Branson rimarrà a lungo limitato dai costi e dai rischi. E’ realistico pensare a voli suborbitali che portino dei ricchi passeggeri a 80-100 chilometri dalla superficie terrestre, il confine convenzionale raggiunto il quale si può ottenere un certificato da astronauta.
Saranno esperienze brevi e costose: circa un’ora alla tariffa di centomila dollari. E’ probabile che queste esperienze diventino gradualmente meno esclusive, a prezzi più accessibili, e che si arrivi a soggiorni in orbita di alcuni giorni.
E’ remota, invece, e forse irrealistica, la prospettiva di un turismo che abbia come meta la Luna o una stazione in orbita lunare, per non parlare di Marte.
Il libro di Battiston descrive in dettaglio tutta la storia dell’Italia spaziale. L’esordio fu con Gaetano Arturo Crocco, che calcolò l’orbita più economica per una missione a Marte, e Aurelio Robotti, del Politecnico di Torino, con i suoi pionieristici lanci di piccoli razzi nella Valle di Susa e poi in Sardegna a Perdasdefogu. Da questi precursori rilevò il testimone Luigi Broglio, originario di Ivrea, che con il suo team dell’Università di Roma nel 1964 lanciò il “San Marco 1” facendo dell’Italia il terzo paese, dopo Russia e Stati Uniti, a mettere in orbita un proprio satellite. Broglio fu poi il fondatore del Centro spaziale San Marco in Kenya: due piattaforme ex-petrolifere al largo di Malindi (Kenya), una per il lancio, l’altra per la sala di controllo, più i servizi su terraferma.
La posizione geografica di questo poligono di lancio, 3 gradi di latitudine sud, permette di sfruttare pienamente la velocità di rotazione della Terra in prossimità dell’equatore, con la conseguente minore esigenza di spinta per il razzo vettore. Sotto questo aspetto il Centro San Marco rimane il più favorevole al mondo, meglio della stessa Kourou nella Guyane francese.
Da qui, tra il 1967 e il 1988, Broglio mise in orbita otto satelliti scientifici. La sua passione e la sua capacità di realizzare grandi imprese con pochi mezzi – il piccolo razzo Scout americano e il supporto del nostro esercito – rimangono leggendari, ed è doloroso che Broglio non abbia avuto in vita il giusto riconoscimento, anzi sia stato avversato da politici e burocrati che a parole lavoravano per dare alle attività spaziali italiane una struttura più solida e meno personale. A tardiva riparazione, il Centro di Malindi porta il suo nome, e la struttura di terraferma compie ancora servizi di telemetria.
L’ASI
Nel 1988, la nascita dell’ASI, Agenzia Spaziale Italiana. L’ASI oggi ha una presenza riconosciuta nel contesto europeo e collaborazioni dirette sia con gli Stati Uniti sia con la Russia. Quanto all’ESA, Agenzia spaziale europea, pur destinando solo il 10 per cento dei suoi investimenti alla ricerca scientifica, ha realizzato missioni di esplorazione del sistema solare di grande rilievo come Giotto e Rosetta verso comete e asteroidi, e altre per lo studio del Sole, di Marte e ora di Mercurio. Nella sorveglianza da satellite spicca la flotta dei satelliti Copernicus e nella geolocalizzazione il programma Galileo, che sta diventando operativo e promette una precisione migliore del GPS americano, con tutti i vantaggi applicativi che gli deriveranno dall’essere pensato esclusivamente per uso civile.
Il pericolo degli sciami satellitari
La privatizzazione dello spazio apre la strada a sciami di migliaia di satelliti piccolissimi ma inquietanti per il pericolo di impatti e dannosi alla ricerca astronomica fatta da osservatori terrestri. Servirà una regolamentazione internazionale che tenga conto dei cinquant’anni trascorsi dal Trattato sullo spazio extraatmosferico del 1967.