Juorno.it ha letto in anteprima il libro “Afrika. Chiavi d’accesso” di Ebone Edizioni, il cui autore è Francescomaria Tuccillo. A breve il libro, unico nel suo genere, potrà essere acquistato in tutte le librerie italiane ed aprirà ai lettori una bellissima finestra su un continente ricco di risorse e, tra mille contraddizioni, davvero molto speciale che merita di essere conosciuto tramite le parole dell’autore che proprio dell’Africa ha fatto la sua seconda casa.Le sue pagine propongono una visione d’insieme, scritta da una penna fluida e costellata di episodi di vita reale, di quello che è definito nella premessa ”uno dei luoghi tra i più misteriosi del nostro pianeta”. È così. Dell’Africa parliamo molto (quasi solo a proposito di migrazioni) e sappiamo poco.
Vale quindi la pena di approfondire il tema con l’autore che Juorno.it ha intervistato.
Cominciamo dal titolo. Perché “Afrika” con la ”k”?
Semplicemente perché così si scrive in swahili, la lingua “trasversale” dell’Africa subsahariana, dove ho vissuto per anni. Quella “k” vuole dunque essere un omaggio alla cultura africana, oltre che un piccolo dettaglio che può suscitare curiosità in chi osserva la copertina.
Anche il sottotitolo è interessante: ”chiavi di accesso”. Che cosa intende esattamente?
Intendo indicare l’obiettivo della pubblicazione, che non è quello di esaurire in poche pagine il vastissimo e complesso tema africano, ma piuttosto di offrirne alcune chiavi di lettura a tutti coloro che per ragioni di lavoro, di studio o di curiosità intellettuale intendono conoscere meglio un continente molto diverso dagli stereotipi in cui è confinato dai nostri pregiudizi. L’Africa non è solo una meta turistica esotica, come pensano alcuni, o una minaccia di invasioni migratorie, come credono in troppi. È molto altro e molto di più.
Riuscirebbe a dirci in sintesi che cos’è l’Africa di oggi?
L’esercizio è difficile. Non a caso il primo capitolo del libro s’intitola ”Si fa presto a dire Africa”. Il continente africano è un mosaico quanto mai eterogeneo di climi, ambienti naturali, popolazioni, tradizioni, ceti sociali. È insieme caldissima e fredda, arida e fertile, moderna e conservatrice, poverissima e ricca, cristiana, musulmana e pagana, internazionale e tribale, postcoloniale e libera da sudditanze di ogni genere. Provo tuttavia a riassumerne i tratti essenziali citando tre elementi che mi paiono fondamentali: risorse naturali, democrazia e gioventù.
Le risorse naturali africane sono tra le più ricche e strategiche del pianeta. L’Africa possiede petrolio, gas, uranio, radio, ferro, cromo, fosfati. Produce il 50% dell’oro, il 60% dei diamanti e il 97% del rame mondiali. E potrei continuare. Inoltre sta vivendo una fase, faticosa ma decisiva, di passaggio dagli antichi leaders for life alla democrazia reale, che è sempre condizione di stabilità e di sviluppo economico e sociale. Non a caso la crescita media dell’Africa subsahariana nel 2019 è stimata al 4% dal Fondo Monetario Internazionale, con un picco in alcuni paesi: in Kenya per esempio supererà il 6% e in Etiopia sarà del 7,7% quest’anno e dell’8,8% nel 2020.
Infine e soprattutto l’Africa è il continente più giovane del mondo. Oggi l’occidente invecchia costantemente. La popolazione africana invece ha un’età media di 18 anni. A questo dato è utile affiancare quello della crescita demografica: gli africani sono oggi un miliardo e trecento mila e nel 2050 diventeranno due miliardi e mezzo, saranno più numerosi dei cinesi e per la metà in età da lavoro, perché il loro aumento non è dovuto a incremento delle nascite, come si pensa a torto, ma a una maggiore durata della vita. Sono numeri destinati a spostare i baricentri del pianeta cui siamo avvezzi da secoli: quello politico ed economico, così come quello sociale e culturale. Una rivista italiana è uscita con una bella copertina, nel suo ultimo numero. Accanto a un neonato di colore ha messo in rosso il titolo: “Questo bambino salverà il mondo“. E lo ha commentato con un sottotitolo: ”La popolazione mondiale invecchia e calerà entro la fine del secolo. Ma c’è un continente che potrà ancora contare sull’energia dei giovani: l’Africa“. È così. E con questi giovani dovremo confrontarci per sopravvivere.
Siamo pronti a farlo? In altri termini, come l’Italia e l’Europa si stanno relazionando con l’Africa dal punto di vista economico e politico?
Per essere diretto, le rispondo con una sola parola: male. Mentre i giganti orientali – Cina e India – hanno compreso da tempo il peso strategico dell’Africa e mai vi sono stati così attivi dal punto di vista commerciale, politico e militare, l’Europa si presenta in maniera frammentaria e incerta. E l’Italia, ripiegata su se stessa e sulle sue diatribe interne, è pressoché assente. È un peccato. Gli europei in generale e gli italiani in particolare hanno molte affinità storiche e culturali con il continente africano e, se agissero in maniera strategica e non occasionale, potrebbero costruire in Africa e con l’Africa prospettive concrete di sviluppo per le loro economie, i loro giovani e il loro futuro. Come ho scritto nel libro, spazio ce n’è ancora. Tempo invece molto poco, perché le altre potenze mondiali si stanno muovendo in maniera assai più rapida e strutturata di noi.
Tra le chiavi di accesso all’Africa e ai suoi mercati, qual è la più importante?
Non ho dubbi: la cultura, in senso lato. Per cultura intendo innanzi tutto una conoscenza della storia, delle tradizioni, dei costumi e della società che consenta di andare oltre i preconcetti e di accostarsi all’Africa con consapevolezza. Inoltre, per passare al settore economico e industriale al quale il libro si rivolge prioritariamente, cultura significa pensiero lungo o strategia. Un errore delle imprese italiane che hanno tentato di fare business in Africa è sempre stato il tatticismo spicciolo. Alludo alla tendenza a cogliere al volo le opportunità senza costruire una relazione stabile nel tempo, senza conoscere i bisogni reali dei paesi africani e facendo troppo spesso ricorso alla corruzione come strumento di marketing. La corruzione è, tra tutti i tatticismi possibili, il più stupido: a parte le valutazioni etiche, dal punto di vista economico genera forse valore immediato, ma compromette nel medio-lungo termine la reputazione e lo sviluppo sostenibile di chi la pratica. Potrei citarle decine e decine di esempi di pratiche corruttive che hanno generato perdite di contratti, problemi giudiziari e addirittura, alla fine, il fallimento delle aziende coinvolte. L’ultimo episodio riguarda un’impresa di costruzioni in Kenya: sei dei suoi dirigenti sono oggetto di un mandato internazionale di cattura, i lavori infrastrutturali che stava facendo sono annullati e l’azienda è in concordato fallimentare.
Eppure uno dei problemi dell’Africa è proprio la corruzione. È forse per questo che le imprese italiane si sono “adeguate”, praticandola anche loro?
Non credo, perché quelle stesse aziende non l’hanno praticata solo in Africa ma anche altrove, Italia compresa. Chi considera la corruzione uno strumento di crescita, tende a corrompere sempre, chiunque e dappertutto. Aggiungo che molti paesi africani, consapevoli che corruzione è sinonimo di paralisi, la stanno ora combattendo con ogni mezzo. Penso di nuovo, per citare solo due casi, al Kenya e all’Etiopia. Infine è interessante ricordare i dati dell’ultimo rapporto di Transparency International, l’organismo che misura la corruzione percepita in 180 nazioni del mondo. Se è certo che questo problema resta forte in Africa, alcuni dei suoi paesi hanno registrato un netto miglioramento e hanno un punteggio superiore all’Italia, che con 52 punti su 100 resta il paese più corrotto dell’Europa occidentale. Non abbiamo quindi molto da insegnare a nessuno. E, in ogni caso, la corruzione altrui non giustifica mai la nostra, né eticamente né economicamente.
Lei ha trascorso in Africa dieci anni della sua vita professionale e ci è andato a vivere al culmine della sua carriera italiana, quando cioè stava esercitando con successo la professione di avvocato tra Napoli e Roma. Perché questa scelta inconsueta?
È stata una scelta… di spazio e di libertà. Mi spiego. La nostra è una società chiusa, fatta di potentati, di caste e di cosche. Se non si appartiene – né si vuole appartenere – a uno di questi gruppi di potere in Italia non si va avanti. Il lavoro e il merito non solo non sono sufficienti per crescere personalmente e professionalmente, ma addirittura costituiscono un ostacolo. In un mondo in cui l’acquiescenza conta più della competenza, chi è capace di fare il suo mestiere e ha un pensiero libero è visto come una minaccia.
In Africa non è così. In Africa ci sono ancora lo spazio e la libertà di costruire qualcosa senza piegare la schiena di fronte al potente di turno. In Africa il merito conta ancora più dei titoli. In Africa ci si può reinventare un cammino. La mia storia lo dimostra: ho iniziato a lavorarci come avvocato d’affari, poi ho creato la mia piccola impresa che ha avuto successo. Infine sono stato assunto come dirigente da un grande gruppo industriale italiano. Questa eterogeneità di percorso, che mi ha arricchito, da noi sarebbe stata impossibile.
Ma non vorrei parlare solo del mio esempio. Guardiamo anche agli africani. Chi è oggi ai vertici di alcuni paesi, o lo è stato ieri, ha cominciato davvero dal basso. Penso a Jomo Kenyatta, leader del movimento anticolonialista keniota e primo presidente dopo l’indipendenza dalla Gran Bretagna. Jomo è nato in una tribù interna del paese e ha perso i genitori da piccolo. Ha vissuto in un orfanotrofio di missionari scozzesi che, vista l’intelligenza del ragazzino, gli hanno pagato gli studi in Europa. Penso al mito africano per eccellenza: Nelson Mandela. Nato in una famiglia di contadini di un minuscolo villaggio sudafricano, Madiba è diventato avvocato, leader eroico del movimento anti-apartheid, prigioniero per ventisette anni e poi presidente della sua nazione e uomo della riconciliazione tra neri e bianchi. Penso infine al giovane Abiy Ahmed Ali, primo ministro etiope e premio Nobel per la pace 2019. Lo ha ricordato lui stesso a Oslo, ricevendo il premio pochi giorni fa: è nato in un villaggio senza impianti idrici e senza energia elettrica. Era uno di quei bambini che andavano a prendere l’acqua nei punti di distribuzione con i secchi in spalla. E oggi ha due lauree, parla quattro lingue e sta trasformando radicalmente il suo paese. Hanno due punti in comune, questi tre signori di epoche e nazioni diverse: la cultura e il carisma. Tutti e tre hanno studiato accanitamente per diventare quel che sono diventati. Tutti e tre hanno o avevano una personalità che sa convincere, motivare, influire sulla società e sulle sue dinamiche. Ecco: gli studi e il carisma sono ancora, laggiù, criteri di valutazione delle persone. Da noi – e lo dico con amarezza – gli studi contano sempre meno e il carisma è confuso con la paccottiglia propagandistica. Anche per questo ho deciso di vivere in Africa e ci torno, adesso, ogni volta che mi è possibile.
Lei è napoletano e l’editore del suo libro anche. È un caso?
No, non credo. Napoli è il “ponte sul Mediterraneo” per eccellenza, per storia, per cultura. E l’Africa è affacciata sul Mediterraneo. Non è quindi un caso che io mi sia sentito naturalmente spinto verso quelle rive. Né che un editore napoletano, che ringrazio, si sia interessato al mio libro e lo abbia pubblicato con convinzione. La nostra “polis” è aperta al mondo, da sempre. È tollerante, generosa e curiosa. Auguriamoci che lo resti. Il suo futuro, e quello delle sue imprese industriali e artigiane, dipenderà molto dalla capacità di dialogare con altre parti del pianeta. E con l’Africa in particolare.