(di Paolo Giordani) A quasi 100 giorni dall’inizio di quella che a Mosca chiamano “operazione militare speciale” (la versione post-sovietica dell’understatement britannico ha quasi sempre risvolti ironici), l’ipotesi di un cessate il fuoco in Ucraina e dell’avvio di negoziati “seri” appare ancora remota, per varie ragioni.
La prima e più evidente è che non solo i contendenti diretti, Russia e Ucraina, ma anche gli Stati Uniti e la Cina, pensano che dal campo di battaglia si possano ancora ricavare vantaggi: politici, per quando finalmente i negoziati “seri” si apriranno, o geopolitici, in vista del riassetto globale che a questa guerra (noi chiamiamo le cose con il loro nome) inevitabilmente seguirà. La seconda è l’assenza di un mediatore credibile.
A Putin e al suo entourage, ora che gli obiettivi di breve termine sono stati ridefiniti e che si è posto rimedio agli errori militari della prima fase, pare conveniente come minimo completare l’operazione Donbass e provare a stringere la tenaglia a sud, verso Mikolaiv e Odessa, per raggiungere la Transnistria.
A Mosca c’è anche chi sogna di poter tornare all’idea iniziale: “lasciare agli ucraini solo Galizia e Volinia e creare un nuovo soggetto federato, la “Novorossija”, la Nuova Russia. Sogni, per l’appunto. Zelensky e i “falchi” americani e britannici, invece, puntano sulla fornitura di nuove e più potenti armi, anche caccia smontati e da rimontare in loco, (non missili a medio raggio, ha precisato ieri il presidente Biden), per aumentare le difficoltà dell’Armata russa e possibilmente capovolgere l’andamento del conflitto o comunque costringere Putin a più miti consigli.
Gli Stati Uniti, comunque attenti ad evitare l’escalation nucleare, si riprendono l’egemonia in Europa (trascurata da Trump), ottengono l’insperato ricompattamento e addirittura l’allargamento della Nato (a prezzo di inevitabili concessioni alla Turchia di Erdogan), la possibilità di indebolire significativamente la Russia.
Per la Cina, titano del commercio internazionale, questa guerra nell’immediato è un disturbo, ma ha il pregio di costringere gli Stati Uniti, nonostante gli sforzi diplomatici di Biden nel settore indo-pacifico, a concentrarsi “medio tempore” sul teatro europeo, di dare nuovo impulso a quell’architettura economico-finanziaria alternativa al dollaro cui Xi Jin Ping sta lavorando da tempo e di consegnare definitivamente al gigante asiatico un alleato potente, ma non più egemone: una clamorosa inversione dei rapporti di forza rispetto all’era sovietica.
Chi ha maggior interesse ad attivarsi per il cessate il fuoco e per l’apertura di “vere” trattative?
La Turchia di Erdogan, membro dell’Alleanza atlantica che si muove autonomamente, ambisce a creare sull’asse Mar Nero-Mediterraneo una riedizione moderna dell’Impero ottomano e quindi deve potersi accreditare come potenza emergente nell’area: quale occasione migliore che mediare tra i due combattenti? Avrebbe interesse ad attivarsi anche l’Europa, che dal conflitto è la più penalizzata. Ma a questo punto dobbiamo chiederci: quale Europa dovrebbe prendere l’iniziativa? Non tanto i paesi dell’est ex sovietico o del Baltico, che nella Federazione russa hanno sempre visto e vedono, a maggior ragione dopo il 24 febbraio, un vicino scomodo e minaccioso, e che ora Boris Johnson vorrebbe attirare in una specie di “Santa alleanza” un po’ antirussa e un po’ anti-Unione europea. Avrebbe interesse ad attivarsi il nucleo storico dei Paesi euroccidentali – Germania, Francia, Italia – che con l’Unione sovietica prima e con la Federazione russa poi avevano trovato un modus vivendi nel nome della Realpolitik e di obiettivi interessi comuni (compresa, diciamolo chiaramente, l’integrazione tra produttore e consumatori di materie prime).
In effetti Macron, Scholz e da ultimo anche Draghi qualcosa hanno messo in campo, registrando progressi nella “diplomazia del grano”. Con mille difficoltà, perché tra aggressore e aggredito c’è e ci sarà sempre una fondamentale differenza. Ma in certi casi non essere abbastanza intraprendenti può costare caro. Dietro l’angolo, nel nuovo assetto globale, c’è il rischio che la vecchia Europa, se possibile, conti ancora meno di oggi. È essenziale che l’Ue – sempre cresciuta tutte le volte che ha dovuto superare situazioni di crisi, interne ed esterne – ritrovi l’unità e colga l’occasione offertale da questo particolare momento, per dispiegare tutte le proprie potenzialità e dar corpo ad un’effettiva, e non soltanto declamata, politica estera e di sicurezza comune.