(di Rossella Daverio) Sono molti, in questo mercoledì 9 maggio 2018, ad accostare il volto di Aldo Moro a quello di Peppino Impastato.
Hanno ragione. Ricordarli insieme non solo è giusto. È doveroso.
Le «sincronicità» della vita, che l’acume dell’amico Francescomaria Tuccillo ha evocato ieri, non sono mai anodine. Non è un caso che Aldo e Peppino siano stati massacrati lo stesso giorno preciso di quarant’anni fa. L’anziano professore di Maglie – intriso di cultura, lucido, riflessivo, tormentato, elegante nei modi e profondamente cristiano – e il giovane giornalista di Cinisi – irridente, temerario, impulsivo, sciamannato, barbuto e comunista – hanno condiviso un tratto comune fondamentale, che li ha portati entrambi alla morte: il coraggio di cambiare.
E che cosa volevano cambiare? Gli equilibri del potere. A Roma, la visione di Moro, accolta e condivisa da un altro grande protagonista di quegli anni, Enrico Berlinguer, mirava a creare un dialogo politico-sociale nuovo, anticipatore dell’evoluzione del mondo, cosciente della crisi irreversibile del modello politico cattolico da un lato e sovietico dall’altro, e rappresentativo della totalità del popolo italiano. A Cinisi, un paesino presso Palermo divenuto «snodo fondamentale negli equilibri mafiosi della Sicilia occidentale», la giovane Radio Aut di Impastato faceva a pezzi la legge non scritta dell’omertà, prendeva di mira il potentissimo don Tano Badalamenti, ne denunciava gli abusi e irrideva l’arroganza, resa più forte dal servilismo di chi l’accettava come ovvia. Entrambi – Aldo e Peppino – stavano mettendo a rischio posizioni di comando che, a Roma come a Cinisi, si consideravano intoccabili, dominavano nell’ombra persone, territori e istituzioni, accumulavano ricchezze, distribuivano prebende, corrompevano o si lasciavano corrompere. E spesso venivano a patti tra loro. Già. Come la storica sentenza di Palermo del 20 aprile 2018 ha messo in luce senza incertezze, la mafia e lo Stato hanno condiviso negli anni “papelli” d’intesa, scritti dai capi mafiosi e destinati ad alti esponenti del governo della nazione, ricattata nelle sue leggi, nella sua etica e nei suoi valori costituzionali.
Per tornare ad Aldo e Peppino, si impone a questo proposito una domanda che pochi, in questa giornata si sono fatti. Perché lo Stato, fermissimo nel non voler trattare con gli assassini di Moro, venne invece a patti con quelli di Impastato? Perché questa disparità di trattamento tra due interlocutori egualmente criminali? Perché la stessa figura, quella di Giulio Andreotti, emblematico esempio di esercizio opaco del potere, considerò «assolutamente inaccettabile» negoziare la liberazione di uno statista con «un manipolo di disperati destinati alla sconfitta», cioè le BR, e invece «con la sua condotta e non senza personale tornaconto, coltivò consapevolmente e deliberatamente una stabile relazione con il sodalizio criminale mafioso»? Sono parole, queste, scritte nella sentenza della Corte d’appello di Palermo, costretta purtroppo ad assolverlo per prescrizione del reato pur sottolineandone le responsabilità comprovate di connivenza con Cosa nostra.
La risposta alla domanda è sempre racchiusa nella stessa maledetta parola: “potere”. Mentre la liberazione di Moro avrebbe destabilizzato i potenti di allora, l’alleanza con la mafia contribuiva a rafforzarli, dato che Cosa nostra si era infiltrata fino alla vetta delle istituzioni. Uno dei magistrati di Palermo che ha rappresentato l’accusa nel processo sulla trattativa mi ha detto, in un incontro che ho avuto il privilegio di avere con lui: «Ci sono stati periodi della nostra storia in cui non si può parlare di “relazione” tra lo Stato e la mafia perché lo Stato era la mafia».
Ma allora, se è così, se a questo punto si è potuti arrivare, se gli omicidi di Moro, Impastato (e delle centinaia di vittime della mafia) hanno fatto comodo a molti, se i poteri occulti sono arrivati fino al governo della nazione e lo hanno condizionato… è colpa anche nostra. Perché lo Stato siamo noi. Moro lo disse ai suoi studenti: «Smettetela di parlare delle istituzioni come fossero “altro” da voi. Siete voi le istituzioni, siete voi che le fate vivere, siete voi che potete giudicarle e avete il diritto di cambiarle».
È vero. E che cosa significa in concreto, per noi adesso, che lo Stato siamo noi?
Facciamo un esempio. Oggi, 9 maggio 2018, quarant’anni dopo i massacri di via Caetani e di Cinisi, stiamo per assistere alla proposta di un esecutivo “di tregua”, voluto dal Presidente della Repubblica (non per nulla vicino ad Aldo Moro nel pensiero e colpito negli affetti dalla mafia, che ha ucciso suo fratello Piersanti). Sarebbe, questo governo di tregua, l’unico modo per arrivare con un po’ di competenza e dignità ai fondamentali appuntamenti politici, economici e sociali che attendono al varco l’Italia sia a Roma sia a Bruxelles, dove in giugno si discuterà di immigrazione, lavoro e bilancio dell’Unione. Probabilmente sarà invece respinto da un Parlamento diviso, dominato dai populismi, impreparato al suo compito e condizionato da due individui – Matteo Renzi e Silvio Berlusconi – che per ragioni di egolatria e di interesse gli impediscono di svolgere il ruolo decisivo che la Costituzione gli riserva. Così dovremo tornare a votare tra breve, senza motivazione e senza la possibilità di incidere davvero sull’evoluzione del reale, perché lo faremo con la stessa legge elettorale indegna, di matrice renziana e denominazione ridicola (“Rosatellum”, come un vino rosé di scarsa qualità), che ci ha condotti al pantano in cui ci troviamo.
Siamo tutti, credo, in uno stato di confusa rassegnazione di fronte a questo pericoloso dissesto, le cui conseguenze rischiano di colpire soprattutto i più deboli e i più piccoli tra noi e di mettere in gioco i fondamenti stessi della democrazia.
Se alla rassegnazione sostituissimo la ribellione – se tornassimo in piazza come si faceva una volta, se scrivessimo una petizione ai due presidenti delle Camere con milioni di firme, se ci ricordassimo ogni tanto la prima riga della Costituzione – forse gli insegnamenti che quel 9 maggio di quarant’anni fa ci trasmette non sarebbero vani.
I versi che danno il titolo a queste righe sono di Fabrizio de André e si riferiscono a un altro maggio, di dieci anni prima. Il maggio 1968. Cantava de André:
«Anche se il nostro maggio
Ha fatto a meno del vostro coraggio,
Se la paura di guardare
Vi ha fatto chinare il mento,
Se il fuoco ha risparmiato
Le vostre millecento,
Anche se voi vi credete assolti
Siete per sempre coinvolti.»
Dedichiamoli ad Aldo e Peppino, perché il loro maggio ha davvero fatto a meno del nostro coraggio. Quello di ciascuna e ciascuno di noi, anche se siamo nati dopo che erano già morti. Finché continueremo a chinare il mento per paura di guardare, saremo tutti complici del loro assassinio. E non potremo crederci assolti.