(di Nicola Simonetti) Effetto Angelina Jolie, l’attrice che, dopo aver scoperto di essere portatrice di una mutazione genetica, ha scelto di sottoporsi a chirurgia preventiva di asportazione di mammelle ed ovaio, possibili sedi, per lei, di tumore prossimo venturo.
Unico errore, aver tolto prima il seno e dopo l’ovaio (quello che fabbrica gli ormoni). Andrebbe fatto il contrario. Comunque è stato, il suo, un utile, lodevole messaggio.
Un monito per le sue cogeneri e per l’organizzazione sanitaria che tardano – ognuna a modo suo – a generalizzare il test genetico che permette, oggi, di identificare persone, o intere famiglie, ad elevato rischio di cancro e consentono di intervenire preventivamente o con terapie innovative mirate ai pazienti che presentano i geni mutati.
Ogni donna che scopre di avere un tumore ovarico deve eseguire il test e, nel caso di scoperta della mutazione del gene BRCA 1 e 2 per il tumore del seno e, in particolare, il tumore dell’ovaio per il quale non esiste diagnosi precoce. Tale esame dovrà essere esteso ai familiari.
Ogni anno, in Italia, 5.000 donne ricevono una diagnosi di cancro dell’ovaio ma la ricerca del gene mutato si pratica solo nel 62,5% dei casi, nonostante il suo grande valore predittivo e terapeutico.
La denuncia è fatta nel corso di formazione professionale continua promosso, con supporto non condizionante di AstraZeneca e MSD, dal Master di comunicazione scientifica della università La Sapienza SGP, Roma.
“Le stesse donne – dice il prof. Sandro Pignata, direttore oncologia medica istituto tumori “Pascale”, Napoli – non sono informate di questa esigenza-necessità che ha grande influenza sul riconoscimento precoce del tumore ovarico e nel consentire, alle pazienti portatrici della mutazione, di ricevere farmaci particolarmente efficaci, come ha dimostrato la terapia di mantenimento con olaparib, un PARP inibitore (somministrazione orale) che ha ridotto il rischio di progressione o morte del 70% nelle pazienti con carcinoma ovarico di nuova diagnosi e avanzato con mutazione BRCA. Un passo del genere è utile a capire non soltanto chi potrebbe beneficiare del trattamento con olaparib, ma anche per studiare le famiglie nelle quali queste mutazioni sono trasmesse ereditariamente.
Inattivando PARP si accumulano nel nucleo delle cellule frammenti danneggiati di DNA, con conseguente arresto della crescita e della divisione cellulare, fino ad arrivare alla morte delle cellule tumorali e solo di queste, nel rispetto assoluto di quelle sane.
Il tumore dell’ovaio è una malattia insidiosa che, nell’80% dei casi, in mancanza di sintomi specifici, è diagnosticato in 3°-4° stadio, a tumore già diffuso al peritoneo per cui la mortalità resta elevata.
Sintomi aspecifici, però, che, se opportunamente valutati potrebbero porre il sospetto di un tumore ovarico. Oggi, purtroppo, 8 di questi cancri (ogni anno, 5.000 casi e 3.000 morti in Italia con modesti miglioramenti negli anni) sono diagnosticati al loro grado avanzato (3°-4° grado) quando c’è già disseminazione neoplastica al peritoneo”.
Si impone quindi la prevenzione che si riconosce solo nella possibilità di identificare le famiglie a rischio, quelle, cioè, in cui la neoplasia si manifesta a causa di una predisposizione ereditaria, legata ad una mutazione dei geni BRCA 1 e 2.
“Non è accettabile – denuncia Nicoletta Cerana, presidente ACTO Onlus – che, per una donna su tre, il percorso del test rimanga difficoltoso”
“La valutazione dello stato mutazionale di BRCA nelle pazienti con carcinoma ovarico – dice Giovanni Scambia (policlinico universitario “Agostino Gemelli” di Roma – ha un ruolo fondamentale, non solo per l’identificazione della predisposizione familiare al cancro, ma anche per indirizzare le scelte terapeutiche e l’approccio chirurgico.
A distanza di poche decine di anni fa si è passati da diagnosi-condanna (quasi) certa a guarigione/rallentamento della progressione. Una realtà che ha definito “commovente”.