(di Francesco Di Vincenzo) Edgar Allan Poe sosteneva che un libro intitolato “Il cuore messo a nudo” avrebbe assicurato gloria eterna al suo autore. «A patto, però», aggiungeva scettico, «che questo libro mantenga fedelmente le promesse del titolo». È possibile che “Anima nuda” (Ricerche & Redazioni, 2020, pagg. 222, € 20), titolo pressoché identico a quello ipotizzato da Poe, non assicurerà al suo autore la gloria eterna, ma una nomination, quantomeno, dovrebbe garantirglielo: Filippo Flocco si è davvero messo a nudo in questo suo brillante esordio letterario, e non solo nella disinvolta foto di copertina. Lo fa con un linguaggio sapido e vivace, venato d’ironia e disincanto, ma capace d’addensarsi in passaggi di dolente intimità («Giorno dopo giorno avevo costruito una fortezza di ferro attorno al cuore, dove faccio entrare solo chi voglio io») o di lasciarsi andare a pittoreschi sarcasmi trivial-chic, come in questo ritratto delle ragazze punk di Londra: «Ruttano come lavandini sturati e si ravanano davanti come se avessero un festival di piattole nelle mutande».
Flocco ripercorre tutta la sua ancor giovane vita privata e professionale, ma sarebbe riduttivo considerare “Anima nuda” un’autobiografia. É piuttosto un memoir, una delle declinazioni più fortunate della forma romanzo. Dell’autobiografia, “Anima nuda” non ha l’ossessione della ricostruzione lineare, cronachistica dei fatti (date, luoghi, nomi, contesti ben definiti, etc.). La narrazione di Flocco comunica una verità emotiva più che una verità fattuale, come fa con esemplare evidenza quando, in un passo particolarmente toccante, egli rivela una sua mancata paternità (la ragazza perse il bambino poco prima del parto). Flocco non dice quando è successo, non dà alcuna informazione sulla ragazza. Dice questo: «Perdere un bambino poco prima della nascita vuol dire andare avanti ogni giorno immaginando come sarebbe stato (…) Puoi immaginarne i giochi, i sorrisi, le lacrime che avresti asciugato, gli amici, le storie d’amore, qualsiasi cosa, perché perdere un figlio non nato ti lascia la libertà di soffrire come vuoi e quanto vuoi, per sempre.»
Un episodio che forse sorprenderà chi conosce lo stato civile di Filippo Flocco, congiunto anche formalmente, grazie alla legge Cirinnà sulle unioni civili, con l’uomo con il quale convive da oltre vent’anni. «La natura è ampia, differente, piena di sfumature», scrive Flocco, «e il sesso, fluido».
Parte da lontano il racconto della sua “Anima nuda”, da molto prima che lui nascesse: dall’antico avo fatto barone per i suoi meriti di crociato, al nonno ricco e gaudente, dal padre Romano, generale dell’esercito che lo picchiava «con la cinghia dalla parte della fibbia», alla madre Edda, ostetrica, che guidava la macchina, fumava, portava i pantaloni, adorava la moda e non esitò a sostenere il figlio quando il giovane Filippo decise di aprire in un palazzetto quattrocentesco del centro storico di Teramo il raffinato atelier che porta il suo nome.
Prima c’era stato l’umile ma prezioso apprendistato adolescenziale a Roma, nella maison delle mitiche sorelle Fontana («raccoglievo le pezze»). La sua innata creatività, la sua mano per il disegno («Avevo iniziato a disegnare in maniera ossessiva, dovevo esprimere quello che sentivo dentro») e la sua capacità di proporsi con la sfrontatezza di chi è sicuro del proprio talento, gli aprirono presto molte porte nel mondo dell’alta moda. Arrivarono i primi cospicui guadagni e le lunghe permanenze a Roma, Milano, Londra, Parigi, New York, Miami, Los Angeles.
«Avevo messo a punto una tecnica infallibile per “diventare lo stile” che la Maison o il brand desiderava. Iniziavo studiando la vita del creatore, ne assimilavo i pensieri, poi passavo a esaminare lo storico delle vendite, per capire come orientare la collezione. Rispettavo i codici di riconoscibilità, ma inserivo piccole parti di me, un po’ d’anima vagabonda. Solo sussurrando, rendendo il tutto impercettibile a un primo sguardo.»
Alle permanenze nelle grandi capitali della moda, Filippo alterna, appena può, fughe improvvise e un po’ folli in località piccole e, allora, ancora appartate (Ibiza, Mykonos, Antibes, Gammarth) ma non meno glamour, per ragioni ben diverse, delle metropoli frequentate per ragioni innanzitutto professionali.
Intanto, continua a proporre la sua creatività alle più prestigiose e all’apparenza inarrivabili case di alta moda («Magari potrei aiutarvi a diventare ancora più grandi» scrive sfrontatamente ad una di queste).
E così, il giovane stilista abruzzese entra nelle grazie di un Gran Capo di una delle maison parigine più famose. Per venti giorni costui lo manda ogni mattina, in treno, alla reggia di Versailles. «Il mio compito era solo osservare, guardarmi attorno». Infine il Gran Capo gli annuncia: «Versailles sarà il tuo prossimo tema di collezione. Fammi una vita di corte in chiave contemporanea.»