Belt and Road Initiative? No Grazie. L’Italia cerca il disimpegno dall’accordo fatto con la Cina da Di Maio nel 2019

(di Andrea Pinto) Negli anni la Cina è diventata il più grande costruttore navale del mondo, rappresentando circa il 41% della produzione globale, secondo I dati UNCTAD (United Nations Conference on Trade and Development). Pechino è anche il più grande commerciante marittimo del mondo, con il suo traffico portuale che rappresenta il 32% del traffico portuale globale. La Repubblica cinese, principalmente attraverso COSCOChina Ocean Shipping Company – e China Merchants, controlla il 18% della capacità mondiale delle linee di container, circa il 13% della capacità di trasporto mondiale di GNL e il 12% della capacità mondiale di petrolio greggio.

Subscribe to our newsletter!

L’influenza di Pechino nelle reti di comunicazione, nei porti e nelle spedizioni è una minaccia crescente per le infrastrutture critiche dell’Europa. A lanciare l’allarme un alto funzionario della NATO al Times.

Dal sabotaggio del gasdotto Nord Stream lo scorso anno, la Nato ha istituito un’unità militare per indagare sulla sicurezza delle infrastrutture sottomarine critiche, orientando l’attenzione sulla minaccia diretta a cavi e oleodotti da parte della Russia. L’Alleanza ha anche identificato i rischi derivanti dalla proprietà cinese di infrastrutture chiave, in particolare telecomunicazioni e porti.

Nella regione artica della Svezia esiste una stazione di telerilevamento cinese, inizialmente concepita come sito di ricerca scientifica, ora viene vista, invece, come potenziale minaccia militare. Il livello di sfiducia è tale che alcuni governi, compreso quello britannico, hanno bandito Tik Tok dai dispositivi utilizzati dai funzionari pubblici e vietato l’utilizzo di componenti realizzati da Huawei, la società tecnologica cinese per le reti 5G.

Dopo l’invasione russa dell’Ucraina e l’avvicinamento tra Mosca e Pechino, l’intelligence occidentale ritiene il monopolio cinese delle infrastrutture come una minaccia strategica. “La minaccia è il controllo che la Cina ha sulle infrastrutture che possono essere utilizzate per scopi di spionaggio, come le reti di comunicazione, ma anche per limitare il commercio attraverso il controllo delle spedizioni”, ha affermato al Times una fonte dell’intelligence occidentale. “Nei momenti di crisi geopolitica, la Cina potrebbe utilizzare le sue risorse nelle comunicazioni o nelle spedizioni per gestire il flusso dei dati o degli scambi commerciali, al fine di indebolire o compromettere la risposta strategica dell’Occidente“.

Ciononostante il cancelliere tedesco Olaf Scholz sta favorendo un piano di investimenti di Pechino nel porto di Amburgo. La COSCOChina Ocean Shipping Company – controllata dal Partito Comunista Cinese, sta, infatti, cercando di acquistare una quota di minoranza del 24,9% nel terminal container di Tollerort.

In scia alle polemiche innescate dal via libera all’ingresso di COSCO nel porto di Amburgo, si è riaccesa l’attenzione anche sui porti italiani e in particolare su quello di Trieste, dove HHLA ha una partecipazione in un terminal. “Se i tedeschi intendono fare quello che hanno annunciato certamente noi, che ne siamo più consapevoli perché siamo la frontiera nel Mediterraneo, rispetto a questo progetto egemonico non li seguiremo. Non ci consegneremo nelle mani dei cinesi“, ha detto in una delle sue uscite pubbliche il ministro delle Imprese e del made in Italy, Adolfo Urso. “Esistono oggi tutti gli strumenti sia nazionali sia europei e anche tedeschi per scongiurare situazioni di controllo da parte di chiunque nei porti”, per cui “non succede nulla che non sia voluto da un governo, sia esso tedesco o italiano“, ha dichiarato invece Zeno D’Agostino, presidente del porto di Trieste.

La Cina, tuttavia, è già presente nei porti italiani con la compagnia COSCO che già arriva nei nostri scali con le sue portacontainer. Dalla Cina oggi importiamo 21 miliari di euro e ne esportiamo 4,3 via mare.

L’aspetto portuale è invece più particolare, perché la Cina in molti casi, in Europa, è entrata nella gestione di un’infrastruttura che rappresenta il patrimonio di un paese.

Il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir), nell’ultima relazione annuale sulla sicurezza nazionale ed economica italiana, ha parlato delle infrastrutture portuali italiani come degli “asset strategici a rischio“, ricordando che “sono già state oggetto di attenzione da parte di attori stranieri. Si pensi ad esempio al caso delle interlocuzioni con il Governo cinese in occasione della sottoscrizione del Memorandum sulla Via della seta, che ha registrato anche un interesse per i porti di Savona-Vado Ligure, Venezia, Trieste, Napoli, Salerno e Taranto.

La firma del Memorandum of Understanding sulla Belt and Road Initiative, nel marzo 2019 da parte dell’allora vice presidente del consiglio e ministro Luigi Di Maio, sollevò grandi discussioni sulla centralità dell’Italia nel progetto di espansione cinese e sulle opportunità o pericoli per le infrastrutture italiane. Le autorità portuali di Trieste e Genova firmarono infatti degli accordi discendennti di cooperazione con il gruppo cinese China Communications Construction Company (CCCC), una delle più grandi imprese mondiali nel settore delle infrastrutture.

Entro la fine dell’anno il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni dovrà decidere la linea italiana sulla Belt and Road Initiative e dovrà decidere in fretta perchè il governo Conte II accordò il rinnovo automatico salvo disdetta tre mesi prima. I cinque anni scadono, di fatto, a marzo dell’anno prossimo, ma per uscirne l’Italia deve dichiararlo entro dicembre 2023.

Il governo italiano, unico paese del G7 ad aver aderito alla nuova Via della Seta cinese, è ad un bivio: rimanere con la Cina per fini commerciali e inimicarsi con gli Usa, oppure abbandonare l’improvvido accordo siglato da Di Maio per saldare, in maniera lapidaria, l’alleanza con gli Usa.

Il vertice del G7 di Hiroshima del 19-21 maggio probabilmente segnerà la svolta della vicenda perchè la decisione di non aderire alle velleità di Pechino potrebbe essere presa all’unanimità dai sette paesi più industrializzati del globo. Togliendo così una bella patata bollente all’Italia.

Belt and Road Initiative? No Grazie. L’Italia cerca il disimpegno dall’accordo fatto con la Cina da Di Maio nel 2019

| ECONOMIA, EVIDENZA 1 |