di Paolo Giordani
Sapevamo che Trump è Trump, e che il suo secondo mandato, dopo la schiacciante vittoria, sarebbe stato diverso dal primo, però il 47simo presidente degli Stati Uniti ha impiegato poche ore per segnare, con mosse controverse e dirompenti, una netta rottura rispetto al mondo di ieri: benvenuti nel mondo di Trump.
Il suo approccio “America First” (ne ha dato immediata dimostrazione) si discosta sostanzialmente dal metodo e dallo stile con cui gli Stati Uniti hanno esercitato fino ad ora la loro leadership globale. Il ritiro da accordi internazionali, l’ostilità verso le istituzioni multilaterali come l’ONU e l’OMS, la minaccia dei dazi e le tensioni commerciali con la Cina e con gli alleati storici delineano un quadro di profondo scetticismo nei confronti del sistema internazionale basato sulla cooperazione e sull’interdipendenza. Questo approccio ha già avuto ripercussioni significative, non solo per gli Stati Uniti, ma anche per il resto del mondo, che si trova a dover affrontare le conseguenze di una leadership che sembra disinteressarsi del “bene comune” per privilegiare gli interessi nazionali.
In più il cambiamento sconvolge non solo per i contenuti, ma per la rapidità con cui si manifesta. E lo sconcerto appare evidente soprattutto nell’Unione europea, oggetto di una vera e propria requisitoria di Trump a Davos.
In realtà bisogna meravigliarsi di chi si meraviglia. Il nuovo presidente degli Stati Uniti ha ottenuto un mandato fortissimo – 312 grandi elettori contro i 226 della competitrice Harris, tutti gli swing States, cinque milioni di voti popolari in più, il controllo del Senato e della Camera dei rappresentanti – ed è il leader della maggiore potenza planetaria, al quale una Costituzione “breve”, entrata in vigore nello stesso anno della rivoluzione francese ed emendata 27 volte in 240 anni, conferisce poteri vastissimi, di portata ignota ai sistemi politici del nostro Continente. Tutti i cittadini americani sanno di eleggere una sorta di “dittatore democratico” che, se vorrà sostanzialmente potrà realizzare le sue promesse. Al di qua dell’Atlantico che cosa c’è? Il più grande mercato unico del pianeta, che permette la libera circolazione di beni, servizi, capitali e persone tra i 27 Stati membri, la terza economia mondiale dopo Stati Uniti e Cina, il principale esportatore globale di beni e servizi. Ma proprio l’elezione e l’attivismo di Trump mettono a nudo il rovescio della medaglia: l’Ue non è uno Stato, non ha forza militare, ha solo un abbozzo di politica estera comune, poggia su un sistema molto complesso di regole e su una burocrazia ipertrofica. E’nata e cresciuta nel mondo di ieri, per affermarsi ha dovuto non dico bandire, ma “imbrigliare” la decisione, che è e resta il momento fondamentale della politica. Come può l’Ue, così congegnata, svolgere un ruolo incisivo sulla scena internazionale? Questa è la domanda più importante che Trump, indirettamente, pone a noi europei.
A medio-lungo termine l’Ue dovrà reinventarsi, rafforzare le proprie istituzioni, semplificare le procedure decisionali, creare una forza credibile di difesa comune. A breve-medio termine dovrà rivedere o precisare le proprie posizioni su alcuni temi fondamentali. Per esempio la transizione verde che va realizzata secondo uno scadenzario più ragionevole e senza cadere preda di impulsi economicamente suicidi (la crisi dell’automotive insegna), una più attenta difesa di manifattura ed export, il crescente sostegno a istituzioni multilaterali (come l’Onu) e ai paesi in via di sviluppo anche per controbilanciare il peso di Cina e alleati. Nel mondo di Trump non ci sono molte alternative: occorre adeguarsi, con pragmatismo e intelligenza, oppure rischiare la fine ingloriosa del “vaso di coccio”.
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