Stabilito il conto del divorzio derivante dalla Brexit, circa 50 miliardi di euro, i mercati azionari reagiscono con prudenza, mentre la sterlina inizia a volare.
In Inghilterra, però, iniziano i dissensi contro il governo Tory di Theresa May, destinata a finire sotto il fuoco sia dei filo-Ue, sia degli euroscettici. Fra i primi si fa sentire subito Tom Brake, responsabile del dossier Brexit per i LibDem, secondo il quale “45 miliardi di sterline saranno il prezzo che il Paese dovrà pagare per colpa dei ministri (brexiteers) Johnson e Gove e la loro illusoria visione di un nuovo Impero Britannico post Brexit.
Parole a cui fanno eco diversi deputati laburisti, sullo sfondo delle prime interpellanze “urgenti” nei confronti del governo ai Comuni, o ancora i messaggi di Open Britain, combattiva piattaforma che raduna sostenitori di ‘Remain’ sconfitti al referendum del giugno 2016.
La sintesi di Jonathan Freedland, commentatore liberal del Guardian, è che alla fine si tratterà di “un imperdonabile spreco di denaro” pubblico per il Regno. Considerazione che, per ragioni opposte, fa peraltro pure l’ex leader euroscettico dell’Ukip Nigel Farage, definendo “una svendita del tutto inaccettabile” il versamento di “una somma di tale entità in cambio di nient’altro che d’una promessa senza garanzie di una soluzione decente” futura sulle relazioni commerciali. “Io ho sempre detto che nessun accordo era meglio di un cattivo accordo, invocando l’abbandono del negoziato. Questo afferma Farage è un cattivo accordo: anzi, non è neppure un accordo.