La Francia e i suoi partner europei che operano in Mali hanno annunciato il ritiro coordinato dal Paese, dove sono presenti con l’operazione Barkhane e le forze speciali europee Takuba. “Le condizioni politiche, operative e legali non sono più soddisfatte” e i Paesi, si legge in una dichiarazione congiunta, hanno deciso “il ritiro coordinato” dal Paese africano, pur assicurando la loro “disponibilità a rimanere impegnati nella regione” del Sahel, dove rimangono le minacce jihadiste. La Francia ha dispiegati circa 4.300 soldati nella regione, circa 2.400 nel solo Mali. ll Sahel è una “priorità della strategia di espansione” di Al-Qaeda e dell’Isis, precisa Macron. Nonostante il ritiro delle truppe, il leader dell’Eliseo ha insistito sul “mantenimento dell’impegno nel Sahel con i Paesi vicini”.
“Sahel, la Francia volta pagina sull’operazione Barkhana“, così ha titolato ‘Le Figaro‘, che in un editoriale riflette sul significato di una perdita di influenza francese nella regione che è stata una sua area di interessa per oltre un secolo.
Dopo la cena di lavoro di ieri sera all’Eliseo con il premier italiano Mario Draghi e con altri leader europei e africani, il presidente Emmanuel Macron ha annunciato oggi il ritiro dal Mali delle forze francesi dell’operazione Barkhane. Lasceranno il Mali anche i soldati della missione Takuba, alla quale partecipano le forze speciali dei Paesi europei, Italia compresa.
I bilancio della missione francese
La presenza francese in Mali risale al gennaio 2013, quando il presidente François Hollande decise di inviare le truppe per impedire che, dopo il Nord del Paese, anche la capitale Bamako finisse in mano alle forze jihadiste. La presenza francese in Mali, giustificata dalla necessità di frenare l’avanzata islamista, proteggere l’Europa da possibili attentati e controllare le rotte dei migranti, è stata resa impossibile dopo che due successivi colpi di Stato hanno portato al governo forze ostili alla Francia. La tensione tra la giunta militare insediata a Bamako e Parigi ha provocato l’espulsione dell’ambasciatore francese, e nella capitale africana non è raro vedere scritte come morte ai francesi e ai loro alleati.
Dieci anni di guerra francese al terrorismo sono stati disastrosi. La mobilitazione massiccia di forze militari ha comportato costi enormi: 2 miliardi di euro l’anno, nel solo 2020 duemilacinquecento morti in Mali, Burkina Faso e Niger, due milioni di profughi con i gruppi jihadisti che hanno controllato vaste aree di territorio nel Sahel, favorendo le lotte tra le comunità. I massacri si sono moltiplicati nel corso degli anni dove i civili sono stati uccisi più dai militari che dai jihadisti. Vi è stata anche una campagna informativa molto forte contro la presenza francese dopo la morte di 19 civili innocenti a Bounti in Mali per un errore dell’aviazione francese.
Si pensa ad un riposizionamento in Niger o Ciad
Macron, Draghi e gli altri leader Ue vogliono lasciare il Mali ma non abbandonare del tutto la regione del Sahel. Un’ipotesi è il rafforzamento della presenza in Niger o Ciad, anche se l’idea è di ripensare tutta la collaborazione con i Paesi del G5 Sahel e dell’Africa occidentale.
Gli obiettivi di Barkhane e Takuba non possono più essere perseguiti anche per la presenza dei mercenari russi di Wagner, che sostengono la giunta militare al potere. Durante l’incontro a Mosca tra Putin e Macron del 7 febbraio scorso, il presidente russo ha ripetuto che la Wagner è una società di sicurezza privata che non ha alcun legame con il Cremlino, ma la versione più credibile è che Putin si serva dei mercenari per condurre azioni delle quali non vuole essere considerato responsabile.
La fine di Barkhane dopo nove anni di presenza militare francese in Mali, suggella il fallimento sia tattico che politico. I bombardamenti contro i gruppi jihadisti non sono riusciti ad eliminare la minaccia islamista e gli sforzi dei soldati di Barkhane non sono riusciti ad arginare il crescente sentimento antifrancese tra la popolazione.
Generale Preziosa: “Africa ginepraio di instabilità”
L’Africa è un ginepraio di instabilità, così il generale Pasquale Preziosa, già capo dell’aeronautica fino al 2016 e oggi presidente dell’Osservatorio sulla Sicurezza di Eurispes.
Il Sahel, analizza il generale, rappresenta il “crocevia dell’instabilità africana con rivendicazioni religiose sostenute da gruppi armati affiliati ad al Qaeda legate alla marginalizzazione delle regioni settentrionali del Mali”. Ai conflitti religiosi si affiancano anche quelli armati tra opposte fazioni dovuti a problemi etnici e politici. Il rischio di violenza nella regione è stato elevatissimo e dal 2010 si è manifestata la tendenza all’aumento di nuove crisi, tra le quali la ribellione Tuareg e islamista nel nord del Mali (Ansar al-Dine-Islamic State of Iraq and ash-Sham in Greater Sahara, Jama’at Nusrat al-Islam wal-Muslim, al-Mulathamun Battalion) e la guerriglia di Boko Haram nel nordest della Nigeria.
Storicamente, gli attentati di Al Qaeda iniziarono nel 1998 proprio a Nairobi e con le rivoluzioni arabe del 2011 in Africa si sono diffusi anche gli affiliati dello stato islamico di Abu Bakr Al Baghdadi. Nel Mali, il 94% della popolazione (20 milioni circa) è di fede musulmana con più di dieci gruppi etnici, 13 lingue locali oltre a quella ufficiale francese.
Nella regione c’è l’impegno dell’Onu, dal 2013 con l’operazione Minusma con risultati non ancora visibili, dell’Unione europea con l’Operazione Eutm-M per l’addestramento delle forze armate, percepita dai locali “too theoretical”. La missione antiterrorismo francese (che ha già riportato 54 vittime), denominata Barkhane, ha perso di giorno in giorno il supporto della popolazione maliana. Secondo alcuni partiti politici maliani, “solo il popolo del Mali può porre fine al conflitto in atto”.
La situazione del Mali, quindi, risulta ricalcare quella dell’Afghanistan all’inizio della “Global war on Terrorism”. Alcuni analisti hanno definito il Mali il “nuovo Afghanistan” dell’Africa.
Peraltro, per il contrasto del iihadismo sono ancora in corso in alcune aree dell’Iraq e della Siria, operazioni militari da parte di una grande coalizione con molte potenze coinvolte i cui risultati non appaiono né certi né ancora definitivi. L’apertura delle operazioni militari in Africa di contrasto al Jihadismo con la partecipazione di un numero di Paesi e di forze minimali ha da sempre fatto sorgere dubbi sulla efficacia della strategia globale per combattere il fenomeno terroristico.
L’Italia, in particolare, suggerisce Preziosa, dovrebbe interrogarsi, dopo l’Afghanistan sulle linee da seguire per garantire livelli di Sicurezza nazionale adeguati al nuovo quadro mondiale che vede una competizione strategica molto impegnativa per vincere il futuro. La stabilizzazione del quadro internazionale non sarà priva di sorprese. È necessario ricorrere alla storia e ai suoi agli insegnamenti, soprattutto quelli ereditati dall’antico Impero romano per le minacce provenienti da Sud. La sicurezza dell’Impero fu ottenuta rafforzando i Paesi del Nord-Africa e non disperdendo gli sforzi in zone di poco interesse commerciale o strategico.
La Libia, la Tunisia e l’Algeria, solo per citarne alcuni, sono i paesi di interesse strategico per la sicurezza non solo dell’Italia ma per l’intera Europa. Le operazioni militari, anche se di pace hanno costi molto elevati, anche per i Paesi del G7 che dopo la pandemia hanno dovuto innalzare il debito pubblico a livelli mai visti prima. Le operazioni militari hanno costi certi, ma ritorni incerti. Il Mali ha rappresentato un “pantano di guai” che ha lasciato in eredità alle generazioni future, chiosa il generale Preziosa, non solo un grosso debito finanziario, ma anche un debito strategico in politica estera.
L’Italia in Africa
Il nostro Paese è presente in quel territorio con la “Missione bilaterale di supporto nella Repubblica del Niger – MISIN”, comandata dal colonnello pilota dell’aeronautica militare, Davide Cipelletti, (con area geografica di intervento allargata anche a Mauritania, Nigeria e Benin) al fine di incrementare le capacità volte al contrasto del fenomeno dei traffici illegali e delle minacce alla sicurezza, nell’ambito di uno sforzo congiunto europeo e statunitense per la stabilizzazione dell’area e il rafforzamento delle capacità di controllo del territorio da parte delle autorità nigerine e dei Paesi del G5 Sahel.
Circa 200 militari italiani sono, invece, inseriti all’interno della TF Takuba, garantendo capacità di evacuazione medica del personale della coalizione in operazione mediante l’impiego dei 3 velivoli da trasporto CH 47 F dell’Esercito, in configurazione medevac che si avvalgono della necessaria cornice di sicurezza assicurata dai 3 elicotteri da esplorazione e scorta AH – 129D “Mangusta”, del 5° e 7° reggimento della Brigata Aeromobile dell’Esercito, inquadrati nella Task Force “Jacana”.