In questi due anni di inflazione record, i depositi delle famiglie italiane subiranno una “sforbiciata” da 163,8 miliardi di euro. Come si è giunti a questo risultato? In primo luogo, l’Ufficio studi della CGIA ha ipotizzato che i 1.152 miliardi di euro (dato al 31 dicembre 2021) presenti nei conti correnti bancari non abbiano registrato alcuna variazione nell’arco temporale preso in considerazione. In secondo luogo, dopo aver stimato che nel biennio 2022-2023 l’inflazione crescerà di quasi il 15 per cento (+8,1 l’anno scorso e +6,1 quest’anno), ha calcolato la perdita di potere d’acquisto dei nostri risparmi. L’esito emerso da questa elaborazione è “spaventoso”: praticamente ci troviamo di fronte a una patrimoniale da quasi 164 miliardi di euro che a ogni singolo nucleo familiare “costerà” mediamente 6.338 euro.
Bolzano, Milano, Trento, Lecco e Treviso le province più penalizzate
A livello territoriale, nel biennio 2022-2023 il costo più salato lo soffriranno le famiglie delle regioni più ricche: in Trentino Alto Adige la perdita di potere di acquisto medio sarà pari a 9.471 euro, in Lombardia di 7.533, in Emilia Romagna di 7.261 e in Veneto di 7.253.
A livello provinciale, invece, la “patrimoniale” colpirà, in particolar modo, le famiglie residenti a Bolzano, che subiranno un prelievo medio di 10.542 euro. Seguono Milano con 8.500, Trento con 8.461, Lecco con 8.201 e Treviso con 7.948. Le famiglie meno “colpite”, invece, saranno quelle ubicate in provincia di Siracusa con 3.842 euro, Trapani con 3.595 e Crotone con 3.130.
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La patrimoniale di Amato ci costò 31 volte meno
A distanza di oltre 30 anni, molti ricordano ancora con grande sdegno il prelievo straordinario del 6 per mille applicato dall’allora Governo Amato sui conti correnti degli italiani. Nella notte tra il 9 e il 10 luglio del 1992, infatti, quella misura costò alle famiglie italiane 5.250 miliardi di lire, ovvero 2,7 miliardi di euro. Attualizzando questo importo, il prelievo si attesta a 5,3 miliardi di euro; praticamente un “sacrificio” economico 31 volte inferiore a quello stimato dall’Ufficio studi della CGIA (163,8 miliardi di euro) nel biennio 2022-2023.
Ora le banche devono alzare gli interessi sui depositi
Con un tasso di interesse praticato dalla BCE che lo scorso dicembre si è attestato per quasi tutto il mese al 2 per cento, ovvero, lo stesso di quello che avevamo nel febbraio del 2009, che effetti economici ha prodotto a un ipotetico correntista? Se 14 anni fa il tasso attivo era dello 0,75 per cento, 2 mesi fa si è attestato allo 0,12 per cento, “provocando” uno svantaggio per il risparmiatore dello 0,63 per cento. In altre parole, a fronte di 10 mila euro depositati nel conto corrente, rispetto al 2009 ci troviamo con 63 euro in meno in un anno. Se, come sostengono molti esperti, entro la fine del 2023 il tasso salisse al 4 per cento, raggiungendo lo stesso livello toccato tra il luglio 2007 e il giugno 2008, sui nostri ipotetici 10 mila euro depositati in banca perderemmo 107 euro.
Non si tratta di cifre importanti, tuttavia se le banche tornassero a riconoscere un leggero aumento dei tassi attivi sulle somme libere depositate nei conti correnti, la clientela potrebbe almeno coprire i costi fissi. Cosa, invece, che è stata praticata dagli istituti sulle somme vincolate, anche se, molto spesso, per tantissimi correntisti districarsi tra un “mare” di offerte è estremamente difficile. Uno sforzo economico, quello che dovrebbero sostenere le banche se ritoccassero all’insù i tassi sui risparmi non vincolati, tranquillamente sostenibile, visto che nell’ultimo anno le cose sono andate molto bene. I cinque più importanti istituti nazionali – Intesa, Unicredit, BancoBpm, Monte Paschi e Bper – hanno chiuso il 2022 con utili netti pari a 12,7 miliardi. Un aumento del 65 per cento rispetto al 2021 (Vittorio Malagutti, Tassi in salita banche in festa, L’Espresso, numero 7, 19 febbraio 2023, pagg. 66-71).