Una cifra spaventosa: 19 miliardi di euro all’anno. A tanto ammonta, secondo l’Ufficio studi della CGIA, la spesa degli italiani in attività illegali. In particolar modo per l’uso di sostanze stupefacenti (14,3 miliardi), per i servizi di prostituzione (4 miliardi) e per il contrabbando di sigarette (600 milioni di euro) (vedi Tab.1).
Un’economia, quella ascrivibile alle attività illegali, che non conosce crisi: l’ultimo dato disponibile (2015) ci segnala che il valore aggiunto di queste attività fuorilegge (17,1 miliardi di euro) è aumentato negli ultimi 4 anni di oltre 4 punti percentuali.
“Lungi dall’esprimere alcun giudizio etico – afferma il coordinatore dell’Ufficio studi della CGIA Paolo Zabeo – è comunque deplorevole che gli italiani spendano per beni e servizi illegali più di un punto di Pil all’anno. L’ingente giro d’affari che questa economia produce, costringe tutta la comunità a farsi carico di un costo sociale altrettanto elevato. Senza contare che il degrado urbano, l’insicurezza, il disagio sociale e i problemi di ordine pubblico provocati da queste attività hanno effetti molto negativi sulla qualità della vita dei cittadini e degli operatori economici che vivono e operano nelle zone interessate dalla presenza di queste manifestazioni criminali”.
Va altresì ricordato che dal settembre del 2014 il valore aggiunto “prodotto” dalle attività illecite è stato addirittura inserito nel calcolo del Pil in molti paesi europei, tra cui l’Italia.
“Tra le attività illegali – asserisce il Segretario della CGIA Renato Mason – l’Istat include solo le transazioni illecite in cui c’è un accordo volontario tra le parti, come il traffico di droga, la prostituzione e il contrabbando di sigarette e non, ad esempio, i proventi da furti, rapine, estorsioni, usura, etc. Una metodologia, quest’ultima, molto discutibile che è stata suggerita dall’agenzia statistica della Comunità europea che, infatti, ha scatenato durissime contestazioni da parte di molti economisti che, giustamente, ritengono sia stato inopportuno aumentare il reddito nazionale attraverso l’inclusione del giro di affari delle organizzazioni criminali”.
L’elevata dimensione economica generata dalle attività controllate dalle organizzazioni criminali trova una conferma indiretta anche dal numero di segnalazioni pervenute in questi ultimi anni all’Unità di informazione finanziaria (Uif) della Banca d’Italia. Stiamo parlando di operazioni sospette “denunciate” a questa struttura di via Nazionale da parte di intermediari finanziari (per circa l’80 per cento banche e uffici postali, ma anche liberi professionisti, società finanziarie o assicurazioni).
La CGIA segnala che una volta ricevuti questi “avvisi”, la Uif effettua degli approfondimenti sulle operazioni ritenute più a rischio e le trasmette, arricchite da una accurata analisi finanziaria, al Nucleo Speciale di Polizia Valutaria della Guardia di Finanza (NSPV) e alla Direzione Investigativa Antimafia (DIA). Solo nel caso le segnalazioni siano ritenute infondate, la Uif le archivia.
Tra il 2009 e il 2016 (ultimo dato annuale disponibile), le segnalazioni sono aumentate di quasi il 380 per cento. Se nel 2009 erano poco più di 21 mila, nel 2016 hanno raggiunto la quota record di 101.065 (vedi Tab. 2).
La tipologia più segnalata è stata quella del riciclaggio di denaro che per l’anno 2016 ha inciso per il 78,5 per cento del totale delle segnalazioni. Sempre secondo la Uif, nel 2016 la totalità delle operazioni sospette ammontava a 88 miliardi di euro, a fronte dei 97 miliardi di euro circa registrati nel 2015.
“I gruppi criminali – conclude Zabeo – hanno la necessità di reinvestire i proventi delle loro attività nell’economia legale, anche per consolidare il proprio consenso sociale. E il boom di denunce avvenute tra il 2009 e il 2016 costituisce un segnale molto preoccupante. Tra l’altro, dal momento che negli ultimi 2 anni si registra una diminuzione delle segnalazioni archiviate, abbiamo il forte sospetto che l’aumento delle denunce registrato negli ultimi tempi evidenzi come questa parte dell’economia sia forse l’unica a non aver risentito della crisi”.
A livello regionale la Lombardia (253,5), la Liguria (185,3) e la Campania (167) sono le realtà che nel 2016 hanno fatto pervenire il più elevato numero di segnalazioni (ogni 100 mila abitanti) (vedi Tab. 3).
Su base provinciale, infine, le situazioni più a rischio (oltre 200 segnalazioni ogni 100.000 abitanti) si registrano nelle province di confine di Como, Varese, Imperia e Verbano-Cusio-Ossola. Altrettanto critica la situazione a Rimini, Milano, Napoli e Prato. Più sotto (range tra 170 e 199 segnalazioni ogni 100 mila abitanti) scorgiamo le province di Treviso, Vicenza, Verona, Bergamo, Brescia, Novara, Genova, Parma, Firenze, Macerata, Roma, Caserta e Crotone (vedi Tab. 4).