Dal 2012 famiglie e imprese hanno versato quasi 156 miliardi di euro di Imu e Tasi. Una patrimoniale a tutti gli effetti che, da un lato, ha alleggerito pesantemente i portafogli dei proprietari di immobili e, dall’altro, ha deprezzato pesantemente il valore economico di abitazioni, negozi e capannoni.
Rispetto al 2008, anno in cui è scoppiata la bolla, in molti casi gli immobili hanno perso fino al 40 per cento del proprio valore.
A segnalarlo è l’Ufficio studi della CGIA che ha messo in linea il gettito di Imu e Tasi registrato nel 2012, anno in cui l’allora Governo Monti reintrodusse l’imposta sulla prima casa, e quello degli anni successivi, fino ad arrivare al 2018 (ultimo disponibile).
“Fino a qualche anno fa – segnala il coordinatore dell’Ufficio studi Paolo Zabeo – l’acquisto di una abitazione o di un immobile strumentale costituiva un investimento. Ora, in particolar modo chi possiede una seconda casa o un capannone, sta vivendo un incubo. Tra Imu, Tasi e Tari, ad esempio, questi edifici sono sottoposti ad un carico fiscale da far tremare i polsi”.
Se con l’abolizione della Tasi sulla prima casa i proprietari hanno risparmiato 3,5 miliardi di euro all’anno, sugli immobili strumentali, invece, il passaggio dall’Ici all’Imu ha visto raddoppiare il prelievo fiscale. Tra il 2011, ultimo anno in cui è stata applicata l’Ici, e il 2018 il gettito è passato da 4,9 a 10,2 miliardi di euro. Va comunque sottolineato che da qualche anno il prelievo sulle attività produttive è diminuito grazie all’eliminazione dell’Imu sugli imbullonati e, solo da quest’anno, a seguito della deducibilità dell’imposta che è salita dal 20 al 40 per cento.
“Il 2019 sarà un anno difficile e di sfida, ma l’Italia può farcela se applicherà la ricetta per la crescita, ovvero meno spesa pubblica e meno tasse”, commenta il segretario della CGIA, Renato Mason. “Per ammortizzare la frenata del Pil – prosegue – bisogna assolutamente evitare l’aumento dell’Iva. Cittadini e imprese non possono più pagare il conto dell’incapacità della politica di affrontare con decisione una volta per tutte il tema della razionalizzazione delle uscite totali”.
Con una pressione fiscale che, nonostante le promesse, per l’anno in corso è destinata addirittura ad aumentare, fare impresa è sempre più difficile, anche perché le tasse sugli immobili hanno raggiunto una soglia inaccettabile.
“Sebbene sia stata presa qualche misura a favore delle imprese, il quadro generale rimane sconfortante. Mi preme sottolineare – conclude Zabeo – che il capannone non viene ostentato dal titolare dell’azienda come un elemento di ricchezza, ma come un bene strumentale che serve per produrre valore aggiunto e per creare posti di lavoro, dove la superficie e la cubatura sono funzionali all’attività produttiva esercitata. Accanirsi fiscalmente su questi immobili continua a non avere alcun senso, se non quello di fare cassa, frenando però l’economia reale del Paese”.
A livello territoriale il maggiore prelievo Imu-Tasi si verifica in Valle d’Aosta: nel 2018 il gettito pro-capite è stato pari a 712 euro, contro una media nazionale di 348 euro. Particolarmente sostenuto anche il gettito pro capite presente in Liguria (583 euro), in Trentino Alto Adige (499 euro) e in Emilia Romagna (436 euro).
Rispetto al 2011, ultimo anno in cui è stata applicata l’Ici, la variazione di gettito prelevato su tutti gli immobili presenti nel Paese è aumentata, in termini assoluti, del 114 per cento. Se 8 anni fa i Comuni hanno incassato 9,8 miliardi di euro, tra Imu e Tasi l’anno scorso hanno riscosso 21 miliardi. In termini percentuali, le regioni con l’incremento del valore assoluto più importante registrato tra il 2011 e il 2018 sono state il Trentino Alto Adige (+185 per cento), il Molise (+161 per cento) e la Valle d’Aosta (+155 per cento) (vedi Tab. 4). In termini pro-capite, invece, sempre il Trentino Alto Adige (+175 per cento), il Molise (+165 per cento) e la Valle d’Aosta (+156 per cento).