Sui contribuenti italiani fedeli al fisco pesa una pressione fiscale “reale” che si attesta al 48,3 per cento: 6,1 punti in più rispetto a quella ufficiale. E sebbene sia in calo dal 2014, la soglia raggiunta quest’anno rimane ancora ingiustificatamente elevata. A dirlo è l’Ufficio studi della CGIA.
“Se alle troppe tasse – dichiara il coordinatore dell’Ufficio studi della CGIA Paolo Zabeo – aggiungiamo il peso oppressivo della burocrazia, l’inefficienza di una parte della nostra Pubblica amministrazione e il gap infrastrutturale che ci separa dai nostri principali competitori economici, non c’è da stupirsi, come è emerso in questi giorni, che serpeggi un certo malessere soprattutto tra gli imprenditori del Nordest. Tra le altre cose, a causa di tutte queste criticità continuiamo a rimanere il fanalino di coda in Ue per quanto riguarda gli investimenti diretti esteri”.
Secondo l’Ocse, infatti, lo stock di investimenti diretti esteri in Italia in rapporto al Pil era, nel 2017, al 21,4 per cento. Nessun altro paese europeo ha registrato un risultato inferiore al nostro. In altre parole continuiamo a non essere attrattivi.
Tuttavia, secondo il segretario della CGIA, Renato Mason, c’è dell’altro:
“Oltre all’imponente sforzo economico che anche quest’anno i contribuenti sono chiamati a sostenere, gli italiani devono sopportare anche un costo aggiuntivo legato alle difficoltà nell’ adempiere agli obblighi tributari. Secondo gli ultimi dati della Banca Mondiale, infatti, in Italia sono necessarie 238 ore all’anno per pagare le tasse, contro le 139 richieste in Francia e le 110 previste nel Regno Unito. Un gap che ci fa capire quanto la cattiva burocrazia presente nel nostro Paese abbia allungato ingiustificatamente i suoi tentacoli”.
L’Ufficio studi della CGIA, che da anni fa un monitoraggio attento sull’andamento della pressione fiscale “reale”, è giunta a questo livello (48,3 per cento) ricordando che il nostro Pil nazionale include anche l’economia non osservata riconducibile alle attività irregolari che, non essendo conosciute al fisco, almeno in linea teorica non versano né tasse, né imposte e né contributi.
Secondo l’Istat, infatti, nel 2015 l’economia non osservata ammontava a 207,5 miliardi di euro (pari al 12,6 per cento del Pil); di questi, quasi 190,5 miliardi erano attribuibili al sommerso economico e gli altri 17 alle attività illegali.
In questa metodologia di calcolo, comunque, non viene inclusa tutta l’economia criminale, ma solo quelle attività che si consumano attraverso uno scambio volontario tra soggetti economici (come il traffico di sostanze stupefacenti, la prostituzione e il contrabbando di sigarette).
Per gli anni 2016, 2017 e 2018 l’Ufficio studi della CGIA ha ipotizzato che il sommerso economico e le attività illegali incidano sul Pil nella stessa misura del 2015 (ultimo anno in cui il dato è disponibile).
Ricordando che la pressione fiscale ufficiale è data dal rapporto tra le entrate fiscali/contributive ed il Pil prodotto in un anno, nel 2018, al lordo del bonus Renzi, questa è destinata a scendere al 42,2 per cento.
Tuttavia, se “togliamo” dalla ricchezza prodotta la quota addebitabile al sommerso economico e alle attività illegali che, almeno in linea teorica, non producono nessun gettito per l’erario, il Pil diminuisce (quindi si riduce il denominatore), facendo aumentare il risultato che emerge dal rapporto.
Pertanto, la pressione fiscale “reale” che grava su lavoratori dipendenti, sugli autonomi, sui pensionati e sulle imprese che pagano correttamente le tasse è superiore a quella ufficiale di 6,1 punti: per l’anno in corso è destinata ad attestarsi al 48,3 per cento. Anche se in calo rispetto agli anni precedenti, il peso complessivo del fisco rimane comunque ad un livello insopportabile.
La CGIA tiene inoltre a precisare che la pressione fiscale ufficiale calcolata dall’Istat (nel 2018 prevista al 42,2 per cento) rispetta fedelmente le disposizioni metodologiche previste dall’Eurostat.
Per il 2019, infine, la pressione fiscale potrebbe tornare ad aumentare sia perché la crescita del Pil è data in frenata da tutti gli organismi internazionali sia a seguito di un possibile aumento del prelievo fiscale. Nel caso, infatti, non si dovessero trovare 12,4 miliardi di euro, dal 1 gennaio 2019 l’aliquota Iva, attualmente al 10 per cento, salirebbe all’11,5 per cento; altresì, quella attuale del 22 per cento schizzerebbe addirittura al 24,2 per cento.
Per quanto concerne le richieste avanzate da Bruxelles, è molto probabile che per il 2019 dovremo metter mano ai nostri conti pubblici per quasi 10 miliardi, dopodiché, bisognerà trovare circa 2 miliardi di euro per il rinnovo del contratto di lavoro degli statali, ulteriori 500 milioni di spese “indifferibili” e altri 140 milioni per evitare l’aumento delle accise sui carburanti a partire dal 1 gennaio 2019.
Viste le difficoltà incontrate con il decreto dignità – concludono dalla CGIA – non è da escludere che almeno una parte di questi 25 miliardi di euro possa essere finanziata attraverso un incremento del prelievo fiscale. Un’ipotesi che l’esecutivo ha scartato da tempo, ma che potrebbe essere costretto a ricorrere in mancanza di alternative.