(di Rossella Daverio) Oggi 23 maggio 2020, ventottesimo anniversario della strage di Capaci, la Fondazione Falcone ha invitato i cittadini ad appendere alle loro finestre un lenzuolo bianco. Bianco come la pulizia, come la luce, come la verità.
È un bel simbolo, che sollecita il risveglio delle coscienze. Perché di pulizia, di luce e di verità intorno all’omicidio di Giovanni Falcone ce ne sono poche. La ragione della sua morte risiede senza dubbio nell’eccezionalità della sua vita. I mandanti dell’atto terroristico che l’ha ucciso restano invece nell’ombra.
Giovanni Falcone fu un uomo e un giurista fuori del comune. Conciliò — come scrive stamani il gip di Palermo Piergiorgio Morosini — due virtù rare e raramente associate tra loro: operosa combattività quotidiana e lucidità nell’immaginare il futuro. Questi talenti si tradussero concretamente in «un forte senso di autonomia dai centri di potere» che gli permise di innovare il ruolo del magistrato e modificare l’assetto normativo di lotta alla criminalità organizzata. Se non ci fosse stato Giovanni Falcone, oggi non avremmo le Direzioni Distrettuali e la Direzione Nazionale Antimafia, le norme sui collaboratori di giustizia e il 41 bis.
Un uomo di tale calibro era ovviamente assai pericoloso per i suoi nemici, i cui tentacoli andavano ben oltre i confini di Corleone per arrivare ai vertici dello Stato, delle sue istituzioni e dei centri decisionali occulti che ne determinavano i destini: banche, narcotrafficanti, fabbricanti d’armi, logge massoniche, servizi deviati sulle due sponde dell’Atlantico. Occorrevano molta intelligenza e molto coraggio per opporsi a un sistema talmente radicato da considerarsi intoccabile. Giovanni Falcone possedeva entrambi. Perciò andava eliminato, in un modo o nell’altro.
Dopo alcuni tentativi andati a vuoto, divenne urgentissimo farlo in quell’estate del ’92. Il 17 febbraio precedente era successo qualcosa d’inquietante a Milano: l’arresto di Mario Chiesa e l’apertura, in Procura, di un faldone con scritto sopra «Mani Pulite». I complici del potere mafioso che «avevano invaso come cancro l’intero corpo della nazione» (per citare un memorabile editoriale di Alberto Cavallari dopo l’omicidio Dalla Chiesa) vedevano incrinarsi per la prima volta quel complesso status quo, fondato su sottili equilibri d’interesse, in cui avevano prosperato per decenni in totale impunità. E sapevano bene come e quando Giovanni Falcone, che con Milano già stava collaborando, avrebbe inferto loro il colpo di grazia.
In tale quadro mutante, chi furono davvero coloro che prima lo denigrarono con un’intricata trama di dossieraggi, poi lo minacciarono, infine ne sentenziarono la morte? Lui stesso definì i suoi nemici «menti raffinatissime». E non si riferiva di certo ai viddani di Corleone. Chi sedeva dunque dietro il monitor di regia? Chi fu inviato in Sicilia prima e a Roma poi per spiarne le mosse? Chi lo tradì in occasione dell’attentato fallito dell’Addaura e di quello, malauguratamente riuscito, di Capaci, rivelando i suoi programmi e i suoi spostamenti, che erano secretati, cioè noti a un numero di persone che si contavano sulle dita di una mano?
In questi giorni è riemerso con prepotenza, in seguito alla trasmissione televisiva Atlantide de La7, il nome di Bruno Contrada che, tra tutti i presunti traditori del giudice palermitano, è da anni il più accreditato. Alfredo Morvillo, cognato di Falcone e anche lui magistrato, ha dichiarato ad Atlantide che Giovanni gli rivelò di essere stato tradito da «un alto ufficiale delle forze dell’ordine». Il che avvalora l’ipotesi Contrada, che fu poliziotto e capo della Mobile di Palermo, oltre che dirigente del Sisde (come si chiamavano allora i servizi segreti interni).
Personaggio viscido e ambiguo, che si è mosso con gran disinvoltura nella zona grigia tra legalità e illegalità, Bruno Contrada è certamente di quelli che non amano il bianco.
Arrestato nel dicembre 1992 per concorso esterno in associazione mafiosa, è stato tuttavia scagionato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e dalla Cassazione italiana e reintegrato, da pensionato, nella Polizia di Stato. E soprattutto si è sempre difeso con tenace accanimento dalle accuse a suo carico durante gli anni di prigionia e oltre.
Davanti a chi, come lui, proclama la propria innocenza per tutta la vita, è legittimo — ai sensi della Costituzione, che impone di rispettare le sentenze — porsi la domanda: e se avesse ragione? Chi sarebbero in tal caso le persone vicine a Giovanni Falcone che lo hanno tradito più volte? Sono ancora attive e magari ricoprono ruoli di responsabilità nel paese?
Lo lascerebbe intendere una dichiarazione recente di Vittorio Teresi, coordinatore del pool di inquirenti nell’inchiesta Stato-mafia. Se Falcone avesse potuto completare il pacchetto normativo che aveva in mente — ha detto Teresi — sarebbe riuscito a conseguire «l’obiettivo di noi tutti: cioè la distruzione totale, completa e irreversibile delle mafie». E ha aggiunto. «Questo obiettivo è contrastato ancora da molti Stati. E da molti esponenti di questo Stato».
Analogamente la natura stessa del sistema mafioso potrebbe indurre a pensare che dietro Contrada ci fosse ben altro. La criminalità organizzata e i suoi padrini, palesi e occulti, vivono di apparenze. Nulla di quello che si vede è reale. Rispettabilità di facciata, formalismo e burocrazia sono le quinte teatrali che nascondono le macchine di scena. Dietro i «moventi prossimi» di un crimine, che appaiono sotto gli occhi di tutti, si celano sempre «moventi remoti», che pochissimi conoscono. E ci sono infine, nella recitazione mafiosa, protagonisti e controfigure: poiché il protagonista non può correre rischi, si usa al suo posto una controfigura che gli somigli e sia possibile bruciare. Non è un caso che Giovanni Falcone stesso dichiarasse che la mafia «è tutta un teatro».
E se allora Bruno Contrada fosse stato, in tutti questi anni, soltanto la controfigura precisa di qualcun altro, collocato molto più in alto di lui negli interessi della mafia e nell’organizzazione dello Stato?
«Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi», scrisse nel 1974 Pier Paolo Pasolini in un articolo famoso e profetico. «So perché leggo, mi informo, coordino fatti anche lontani, metto insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero e coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero».
È oggi una certezza che ci siano state molta logica e poca follia nella morte di Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo e dei suoi agenti di scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. Ma, purtroppo, permane il mistero.
Sarebbe tempo che chi sa parli. E chi non sa indaghi o domandi. Altrimenti la lotta alla mafia resterà una partita truccata.
Altrimenti non si annienterà mai il serpente, perché non se ne colpirà la testa.
Altrimenti non saremo mai una democrazia autentica, dato che il popolo non può esercitare il potere che gli appartiene senza la consapevolezza che nasce dalla verità.
Altrimenti Giovanni Falcone — e con lui Paolo Borsellino, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Piersanti Mattarella, Boris Giuliano, Pio La Torre, Rocco Chinnici, Ninni Cassarà e troppi altri — continueranno a essere uccisi di nuovo, ogni giorno.