Al netto dei risultati elettoriali gli iraniani sono comunque consapevoli che la figura del presidente in Iran è, di fatto, simbolica perchè il vero potere è detenuto dalla Guida Suprema, Ali Khamenei
di Emanuela Ricci
Il giorno delle elezioni presidenziali in Iran si è svolto tra incertezza e tensione con una Nazione divisa tra il desiderio di cambiamento e la rassegnazione di fronte a un sistema clericale fin troppo radicato e determinante nelle scelte del Paese. Le stime di affluenza alle urne fino alle 17 mostravano un preoccupante 30%, i seggi sono rimasti aperti fino a mezzanotte, raggiungendo il 41% di affluenza rispetto al 48% delle precedenti consultazioni.
La schizofrenia della giornata elettorale si è manifestata nei contrasti tra le immagini trasmesse dai media statali, che mostravano lunghe code di elettori e i video diffusi sui social media all’estero, che ritraevano, invece, seggi deserti e scrutinatori annoiati. Gli elettori si sono trovati dinanzi ad un bivio: provare a cambiare con il voto dando un segnale forte al regime, ovvero astenersi dimostrando rassegnazione ad un potere che con la violenza ha consolidato negli anni il potere assoluto.
Elezioni presidenziali anticipate di un anno per via della morte prematura del presidente ultraconservatore Ebrahim Raisi in un incidente di elicottero. Elezioni che vedono la Repubblica islamica alle prese con problemi rilevanti sia all’interno che all’estero.
L’Iran è attualmente coinvolto in un conflitto per procura contro Israele attraverso le sue milizie estere (Houthi, Hezbollah, Hamas) e si trova a un passo dall’ottenere l’arma nucleare, grazie all’aiuto della tecnologia sino-russa. Ambizioni che, però, impoveriscono sempre più il Paese con una inflazione al 53% e la classe media ormai ridotta alla povertà. Di pari passo aumentano le proteste sociali guidate dal movimento “Donne, Vita, Libertà“, il più delle volte soffocate dal regime con una repressione violenta mai vista prima (omicidi di ragazze balzati alla cronaca mondiale ma raccontati dal regime come fattuali, causati da malcapitati incidenti).
Ritornando alla tornata elettorale tra i candidati, Masoud Pezeshkian è l’unico rappresentante dei riformisti accettato dal regime clericale a concorrere per la carica di presidente dell’Iran. Pezeshkian sembra offrire una velata moderazione nel pieno rispetto del sistema clerico-militarista al potere. Dall’altra parte vi è Saeed Jalili che rappresenta l’ala più intransigente dei conservatori, con una posizione dura verso Israele e gli Stati Uniti. Seguono il generale Qalibaf e il clerico Mostafa Pourmohammadi, entrambi con visioni differenti ma, comunque, fedeli alle pratiche del regime attuale.
Nonostante ciò, i risultati preliminari dello spoglio dei voti vedono in testa Pezeshkian con oltre il 42% delle preferenze, seguito da Jalili con quasi il 39%. Si accende quindi la fiammella della speranza per una gestione più moderata, anche se le promesse elettorali rimangono per lo più compatibili con la situazione attuale del Paese. Con un presidente moderato si potrebbe tentare di intervenire sulla corruzione dilagante, su politiche di sostegno ai poveri e ad una migliore gestione dell’economia. Un presidente moderato probabilmente è quello che serve oggi alla Guida Suprema perchè il fermento dei movimenti sociali e delle piazze potrebbero diventare, nel breve-medio termine, un problema davvero serio per la tenuta del regime, anche alla luce del probabile ingresso diretto in guerra, semmai Israele decida di attaccare Hezbollah in territorio libanese.
Infatti il rappresentante iraniano all’ONU ha annunciato che, in caso di attacco israeliano al Libano, l’Iran risponderà con una guerra totale contro il regime sionista, coinvolgendo tutti i fronti della resistenza.
In conclusione, il voto iraniano del 2024 è più che un semplice esercizio di democrazia è un riflesso delle profonde contraddizioni e tensioni che attraversano il Paese. Gli iraniani hanno espresso il loro desiderio di cambiamento in un contesto di repressione e incertezza e il futuro del Paese rimane una incognita, stretto tra la speranza di una moderazione interna e le pressioni di un regime clericale apertamente ostile al mondo occidentale, Usa e Israele in testa. In tale quadro gli ayatollah cedono volentierti alle lusinghe di Cina e Russia (scambio di tecnologia, armi e risorse energetiche) consentendo così al Paese di abbattere punti percentuali di inflazione, per via delle pesante sanzioni americane.
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