Di Maio rassicura Salvini su emendamenti a decreto sicurezza. L’alternativa sarebbe stata la caduta Governo

   

“Ritiriamo gli emendamenti o cade il governo”, le parole di Di Maio ai sui parlamentari ed è  questo quello che sarebbe accaduto se non avessero ceduto da una parte e dall’altra, con in mezzo Giuseppe Conte.

Luigi Di Maio ha messo sul piatto della bilancia la sua parola: “mi occuperò io degli emendamenti presentati dai miei parlamentari sul decreto sicurezza. “I nostri parlamentari devono capire che se non ritiriamo gli emendamenti e non passa il decreto di Salvini come lo vuole lui cade il governo. E dopotutto Salvini si è turato il naso e ci ha votato il Decreto dignità, come facciamo noi a non votargli il suo?

81 erano gli  emendamenti che  Salvini non aveva digerito. Questo è stato il corto circuito dietro alla proposta per il “condono”, ovvero la pace fiscale. La riunione a tre, scrive La Stampa, è servita solo ad avere una ratifica verbale di una decisione che in realtà Di Maio aveva già preso e confidato ai suoi più stretti collaboratori. Via il condono penale e via lo scudo per far rientrare i capitali dall’estero. I 5 Stelle potrebbero ripensare la norma su Rc Auto, favorevole alla Campania e sfavorevole al Nord, ma non otterrebbero nemmeno il via libera alla sanatoria edilizia su Ischia.

Giuseppe Conte è stato realista rivolgendosi ai due vice premier, “c’è tanta gente che gode a vedervi litigare e non aspettava altro”.

L’incontro è servito anche per  scrivere e limare la lettera che lunedì verrà inviata a Bruxelles, nella speranza di fermare lo spread e l’emoraggia sugli interessi dei titoli di Stato. Ma c’è un passaggio del confronto che più degli altri è interessante raccontare, scrive sempre La Stampa, per capire come le tensioni siano state  “dimenticate” solo  a favore di telecamera.  Salvini e Di Maio si rinfacciano le responsabilità dei loro collaboratori, i sottosegretari impegnati  sul decreto fiscale. Il leghista parla di «pressappochismo», attacca la viceministra Laura Castelli, e l’interferenza un po’ troppo decisa, secondo il capo del Carroccio che pure lo stima, di Stefano Buffagni, scatenato contro i rischi di condono del riciclaggio.

Di Maio li difende e ribatte contro il trio Giancarlo Giorgetti, Massimo Garavaglia e Massimo Bitonci. «Il triangolo delle Bermuda» lo definiscono tra i 5 Stelle a cui non è sruggita la frattura tutta intema al partito di Salvini, tra la cordata storica del Nord e gli economisti di nuovo ingaggio come Armando Siri, Claudio Borghi e Alberto Bagnai, più indipendenti.

Siri ottiene quello che nella concitazione della scrittura del decreto (con tutti i misteri sulla «manina» che restano) gli era stato stoppato. Il saldo e stralcio sulle cartelle, che da contratto avrebbe dovuto declinare la cosiddetta «pace fiscale», rientra. Non sarà subito scritto nel provvedimento, perché il sottosegretario lo avrebbe chiuso solo alle quattro di notte, ma sarà introdotto con un emendamento nella fase di conversione parlamentare. I pentastellati avranno gli occhi ben aperti perché sospettano che la Lega possa riprovare a infilare lo scudo dei beni dall’estero tra la Camera e il Senato. Di Maio  non si fida di Giorgetti, il «terzo incomodo», lo chiama, nel rapporto tra lui e Salvini. «Da ora in poi pretenderemo che ci sia sempre un pre-consiglio, dove i tecnici di entrambe le partì guarderanno i documenti, così sapremo cosa entra al Consiglio dei Ministri”. Il capo politico quando esce da Palazzo Chigi ha ancora il volto incupito, e ha fretta di correre al Circo Massimo per dire al suo popolo di aver sventato il condono.