Nonostante i tanti problemi che ci sta procurando, il flusso migratorio che ci investe da anni sta contribuendo in misura determinante a metterci di fronte ad alcune realtà che non possono essere eluse dall’Italia e che avevamo evidentemente bisogno di focalizzare.
Il nostro rapporto con quello che ci circonda, infatti, è spesso stato mediato, nell’ultimo mezzo secolo, dalle altrui interpretazioni della nostra funzione quale membro più o meno importante di una “Comunità Internazionale” dai contorni indefiniti. A seconda dei casi e delle convenienze, infatti, è essa rappresentata dal generico “mondo globalizzato” che tanto ci piace, dalla comunità “delle democrazie” opposta a quella “delle dittature” e degli “Stati canaglia”, dall’ONU, dall’Unione Europea, dall’Occidente, dalla NATO, dai paesi dell’Euro, dall’Europa mediterranea o, con un pelo di razzismo, da una resiliente Europa occidentale, infastidita da ‘sti nuovi ricchi dell’ex Europa orientale spesso più occidentalisti di noi. I più spudorati, vista la secolarizzazione e laicizzazione rampante di cui vanno fieri, propongono addirittura un Occidente “cristiano”, che però preferisce le spiagge alle Messe domenicali, da contrapporre ad un Oriente islamico col quale vogliono, fortissimamente vogliono, entrare in conflitto, chissà perché. Forse perché non galleggiano nel nostro mare, per lo meno con la testa.
Resta il fatto, che questa delega ad altri di buona parte della nostra identità fa del Bel Paese un elemento passivo del contesto nel quale, al contrario, dovrebbe essere protagonista.
Tornando al punto, da qualche anno, sorprendentemente, stiamo riscoprendo l’acqua calda, vale a dire l’ovvia e singolare importanza della nostra posizione geografica dalla quale deriva un’altrettanto importante valenza strategica. Ce lo diceva la storia, a partire da quella antica nella quale la nostra caotica, bellissima e a tratti cenciosa Capitale era anche Caput Mundi, proprio in virtù della sua posizione, baricentro e riferimento universale: ma la storia l’abbiamo ripudiata e rinnegata come lascito di un passato chissà perché imbarazzante e di cui vergognarci. Ce lo ricorda la cultura occidentale della quale ci definiamo semplici figli e che ci piace considerare anglodiretta, per la lingua, la musica e la tecnologia che ci entusiasmano; invece è frutto soprattutto di quello che hanno fatto i nostri padri anche se ci piace far finta di niente, gigioneggiando con la definizione di patrimonio “dell’umanità”, e non semplicemente “nostro”, da appiccicare a tutto quello che abbiamo di più bello. Ce lo dice anche la Chiesa universale che, abbandonata con supponenza progressista la lingua latina per la sua liturgia, ha comunque mantenuto l’italiano come lingua franca con la quale esprimersi urbi et orbi.
Ma è inutile divagare. Improvvisamente, da poco più di un lustro ci siamo dovuti riabituare all’idea che il Mediterraneo nel quale siamo centrali non si limita ad essere un concentrato di bellezze di cui godere passivamente, ma un’arena nella quale si scontrano interessi contrapposti da parte dei maggiori protagonisti della politica mondiale. E noi ci siamo in mezzo, con i rischi e le opportunità che questo comporta, ma anche con l’impreparazione a fronteggiarli e a coglierle che ci deriva dall’approccio culturale di cui sopra.
Certamente, da questo punto di vista, la crisi libica è stata una grande lezione. Ci è scoppiata tra le mani improvvisamente e contro i nostri interessi, nonostante il tifo forsennato di alcune forze politiche nazionali che, per miopia e in odio al governo in carica, vollero ignorare l’abisso di problemi nel quale stavamo precipitando. Per molti, infatti, di altro non si trattava che di un “rinforzino” al Ruby bis o ter che doveva semplificare il nostro quadro politico nazionale a vantaggio degli uni e a svantaggio degli altri. Punto. Eppure, se già non l’avevamo capito, la Comunità Internazionale che prendeva il mazzo in mano per eliminare il “dittatore” libico non pensava assolutamente all’Italia, alla quale non si peritò neppure di notificare con un apprezzabile anticipo le proprie intenzioni, né lo faceva tenendo conto di interessi comuni, ma semplicemente per quelli di un limitato numero di paesi, rispettivamente Francia, Gran Bretagna e USA. E’ certamente inutile recriminare, ma in quell’occasione avremmo dovuto piegarci alla realtà e capire che da quel momento saremmo stati da soli a fronteggiare le conseguenze dell’accaduto.
E le conseguenze non si sono fatte attendere, a cominciare dall’immigrazione incontrollata che ci investe continuamente ma che non dovremmo incorrere nell’errore di considerare l’unico problema che da quella sponda ci potrà interessare nel futuro. In ogni caso, si tratta certamente di un problema di difficilissima soluzione, stante l’assenza in Libia di un potere centrale in grado di controllare tutto il territorio, con particolare riferimento alle piste che attraversano da sud il Sahara ed alle coste soprattutto della Tripolitania dalle quali parte la massa dei profughi.
Il problema è balzato all’attenzione della nostra opinione pubblica con le immagini strazianti dei primi drammi che hanno portato alla morte di centinaia e poi di migliaia di profughi a poca distanza dalle nostre coste e che ci ha imposto la necessità di “fare qualcosa”. Purtroppo, il “qualcosa” è stato impostato con un forte condizionamento emotivo da parte dell’opinione pubblica, in un clima di commozione emergenziale nel quale sembrava (e ancora sembra in moltissimi casi) che il problema consistesse essenzialmente nel recuperare e poi sistemare in qualche maniera i profughi a casa nostra e non nell’impedire che affrontassero la micidiale traversata (anzi, le traversate, quella del Sahara e poi quella del Mediterraneo). E in questo clima è parso sufficiente mettere un po’ di navi nel Canale di Sicilia, chiamando a raccolta gli altri Paesi europei, e istituire qualche Centro Raccolta in Italia nel quale smistare quelli che ancora erano considerati semplici “naufraghi”.
Così facendo, però, si è innescata una spirale perversa nella quale la presenza di una componente navale pronta ad intervenire in soccorso ha incoraggiato sempre più i tentativi di traversata, nella certezza di un sicuro recupero e di un successivo sicuro approdo in un’Italia che non faceva niente per scoraggiare il fenomeno e accoglieva tutti. Da questo punto di vista, la presenza stessa delle navi militari – prima con l’operazione nazionale Mare Nostrum, successivamente diventata Mare Sicuro, poi con quella europea EUNAVFOR MED e con Triton – seppur non finalizzata specificatamente alla condotta di attività di recupero migranti, non ha assolutamente fatto da deterrente. Infatti, per quanto le loro missioni si ripromettessero essenzialmente finalità operative (la cattura dei trafficanti di esseri umani, il sequestro/affondamento dei barconi utilizzati, ecc..) lo svolgimento di tali attività in mare aperto non può prescindere da un preventivo soccorso nei confronti dei trasportati che così continuano a migliaia ad essere portati sul nostro territorio, non essendo disponibile alcun accordo con autorità libiche credibili e compiacenti per fare lo stesso in Libia.
Insomma, si è imposto il paradosso per il quale le Marine militari europee impiegate nel Canale di Sicilia, quelle che una volta si definivano Marine da guerra, sono ora protagoniste di una missione certamente importante da un punto di vista umanitario ed etico in senso lato, ma altrettanto certamente problematico sotto quello operativo. Infatti, la loro presenza favorisce quell’afflusso incontrollabile dall’Africa che vorrebbero interrompere, giustificando inoltre un processo di emulazione da parte di molte Organizzazioni Non Governative che si sentono in diritto di fare lo stesso, per di più portandosi sempre più sotto le coste libiche e senza accettare limiti e regole da parte degli Stati interessati, in primis il nostro.
E’ chiaro che una soluzione a un problema così complesso non può essere trovata con un colpo di bacchetta magica, ma è anche vero che non si può continuare a fare finta di niente, in omaggio alle fisime ideologiche di chi vuole considerare l’immigrazione una “risorsa” e non un problema da risolvere. Ed è purtroppo chiaro che nel discutere di questi problemi si discute anche della sicurezza di molte persone che affidano la loro vita ad avventurieri senza scrupoli che trovano nella nostra inerzia, e spesso nell’ipocrita compiacenza di molti, un’opportunità per continuare o ampliare i loro traffici sulla pelle dei migranti.
Si deve, in sostanza, invertire il senso di quella spirale perversa, facendo capire che il recupero dei “naufraghi” non può essere confuso con un generico traghettamento dalle coste libiche a quelle italiane (perché poi italiane non si sa) mediante un servizio routinario e non più emergenziale. E per fare questo, non resta che allontanare le nostre navi dalle coste libiche, per costringere i trafficanti ad utilizzare imbarcazioni più pesanti e performanti al posto degli improbabili gommoni impiegati fino ad ora per uscire semplicemente dalle acque territoriali nordafricane. Così facendo, saranno costretti anche loro a “metterci la faccia”, e a rischiare la galera, mentre spesso ora si limitano ad accompagnare i gommoni da bordo di altre imbarcazioni per eclissarsi appena avvistati dalle navi militari. Certamente, le traversate saranno più onerose da un punto di vista finanziario e questo scoraggerà molti dal tentarle, riducendo anche, nel medio periodo, il numero di perdite in mare. Naturalmente, a tale comportamento dovranno essere tenute anche le ONG, forzando la loro riluttanza a sottostare alle norme degli Stati o, per lo meno, obbligandole a trasportare i recuperati negli Stati di cui le loro navi battono bandiera. E questo è un problema nel problema, rispondendo tali organizzazioni a logiche che nulla hanno a che fare con gli interessi nazionali, almeno con quelli dei paesi come il nostro, restii “per Costituzione” ad imporsi nel contesto internazionale.
Fortunatamente, almeno per ora è la Libia stessa, non si sa se solo nella sua declinazione tripolina-misuratina o con qualche ammiccamento anche da parte di Tobruk, ad imporsi e a favorire una soluzione in linea con i nostri interessi, avendo ingiunto alle ONG di allontanarsi dalle sue coste. La riaffermazione di una volontà sovranista libica nei confronti della migrazione che dalla Tripolitania parte per l’Italia, insomma, non può che essere benvenuta, anche se non c’è da illudersi: senza un intervento anche sul territorio che interrompa il flusso da sud, infatti, ogni provvedimento sarà insufficiente.
In altre parole, la soluzione di un tale problema semplicemente “in mare” non è possibile ed anzi si confermerà sempre più controproducente, con buona pace di quelli che anche da noi ipotizzano soluzioni settoriali per quello che è un problema molto complesso e globale. A parte la fase più appariscente riferita alla traversata del Mediterraneo, infatti, tale soluzione implica soprattutto investimenti a favore della Libia per rinforzarne le capacità di controllo del territorio, azioni diplomatiche e magari successivamente attività di supporto militare sul terreno, per mettere in sicurezza i tratti di costa, per aiutare le forze locali nel contrasto ai trafficanti, per il controllo dei confini meridionali del paese, nonché per assicurare apprestamenti logistici (campi profughi) in grado di accogliere in condizioni di sicurezza e decoro coloro che affluiscono da sud, in attesa che il flusso si interrompa e possano essere rimpatriati. Inoltre, è necessario elaborare da parte nostra una campagna mediatica e psicologica per far capire agli aspiranti migranti, ancor prima che decidano di lasciare il loro paese, quanto sia poco remunerativo il tentativo, per i rischi che comporta e per i disagi che implicherà anche una volta arrivati a destinazione.
Esattamente il contrario di quello che abbiamo finora fatto con ammiccanti fictions che, enfatizzando l’afflato di amorevole accoglienza col quale abbiamo affrontato il problema, hanno incoraggiato molti a provarci, anche a costo della loro vita e di quella dei loro familiari.
Infine, da un punto di vista politico, bisogna fare un bagno di umiltà e di realismo, accettando il fatto che in Libia bisogna fare i conti con chi è in grado di controllare il territorio e non semplicemente con chi ci è stato indicato dalla Comunità Internazionale, sulla base di criteri di “legalità internazionale” definiti da chi non pagherà mai dazio per le scelte operate.
Dobbiamo cioè rinunciare all’ingenuità di puntare tutto sul “Primo Ministro” Al Serraj, semplicemente perché appoggiato e spinto da qualche ufficio nel Palazzo di Vetro, facendo finta di ignorare che l’unico in grado di controllare le piste che attraversano il Sahara è il Gen.Khalifa Haftar, titolare di una capacità militare che il primo non ha. E la capacità militare, nel mondo reale al riparo dalle nostre illusioni oniriche, conta molto.
Come dicevo in precedenza, la nostra posizione nel Mediterraneo oltre ad esporci a molti rischi, ci assicura anche molte opportunità, trattandosi di un mare al centro degli interessi di molti e nel quale si stanno definendo equilibri che influenzeranno il nostro benessere e la nostra sicurezza in futuro. Non solo Libia e migranti, quindi, ma anche grandi possibilità di sfruttamento energetico, commercio ed influenza dalle quali siamo sempre stati scoraggiati da chi temeva che nostri eccessivi “sigonellamenti” ci portassero ad elaborare una strategia troppo nazionale. Insomma, dobbiamo capire che alla base delle nostre attuali debolezze e vulnerabilità c’è la pervicace volontà di altri di non avere nel nostro Stivale un interlocutore troppo forte e determinato, in grado di proporsi come pietra di inciampo per i propri intrallazzi. E spesso a tali manovre nei nostri confronti ci siamo piegati per meschini interessi di parte, anzi di partito, prestando il fianco e la nostra suicida partecipazione ad operazioni esterne contro di noi delle quali paghiamo oggi le conseguenze.
Faremmo bene a rivedere questa nostra vocazione a subordinarci agli interessi altrui, trasformando in semplici e banali questioni di bottega partitica nazionale le questioni di carattere strategico mondiale che ci ruotano intorno. Ne avremo bisogno presto, temo, di questa revisione, considerando che a parte la Libia ci sono altre aree nel Mediterraneo, a partire dalla situazione in Medio Oriente fino alla collegata – collegatissima – crisi “dormiente” in Ucraina, che dovremo considerare con molta attenzione. E dalle quali potranno derivarci problemi molto più seri di quelli attuali.
di Marco Bertolini
Il Generale C.A. Marco Bertolini dell’Esercito Italiano, tra i molteplici incarichi e comandi di prestigio ha comandato il Comando Operativo di Vertice Interforze, la Brigata Paracadutisti Folgore e da aprile 2017 è il Presidente Nazionale dell’Associazione Paracadutisti d’Italia.