Il ministero della Difesa russo ha comunicato che il capo della marina russa, l’ammiraglio Nikolai Yevmenov, ha incontrato i membri dell’equipaggio dell’incrociatore, affondato, Moskva. Yevmenov ha rassicurato i marinai: “continuerete a servire la marina russa“.
Il ministero della Difesa russo ha rilasciato un video di 26 secondi che mostrava Yevmenov e altri due ufficiali in piedi davanti a circa 100 marinai su una piazza d’armi.
Mosca ha detto che tutti i 500 membri dell’equipaggio sono stati salvati dopo l’esplosione di mercoledì. Funzionari ucraini, invece, hanno affermato che alcuni marinai (oltre 50) insieme al loro comandante sono morti ma non hanno fornito prove a sostegno di tale affermazione.
Le testimonianze
Sull’incrociatore russo Moskva sarebbero morti 40 marinai russi, e molti altri sarebbero rimasti feriti, in gran parte con gli arti mutilati. A raccontarlo alla Novaya Gazeta Europe, versione internazionale dello storico giornale indipendente russo per cui lavorava Anna Politovskaya, è la madre di un membro dell’equipaggio sopravvissuto, mentre dalle fonti ufficiali russe continua a non trapelare alcun dato sulle perdite.
Il marinaio sopravvissuto avrebbe contattato la madre il 15 aprile, il giorno dopo l’affondamento dell’incrociatore raccontando che la nave sarebbe stata colpita da un missile ucraino lanciato da terra.
“Mi ha chiamato e piangeva per quello che ha visto – ha raccontato la donna alla Novaya Gazeta chiedendo di non diffondere dettagli che possano renderlo riconoscibile – Aveva paura. È chiaro che non tutti sono sopravvissuti. Hanno cercato di spegnere l’incendio da soli dopo che l’incrociatore è stato colpito da tre missili Neptune”.
Secondo la sua testimonianza sarebbero morte una quarantina di persone, altre sarebbero disperse e vi sarebbero molti feriti con gli arti mozzati per le esplosioni.
Nelle scorse ore anche Radio Liberty ha pubblicato delle testimonianze di familiari di marinai, la moglie di Ivan Vakhrushev, che sarebbe morto sulla nave, e il padre di Yegor Dmitrievich Shkrebets, dato per disperso, un coscritto che – lamenta il padre – studiava per diventare cuoco a Yalta e, dice, “non avrebbe dovuto trovarsi lì”. In un video pubblicato oggi dal ministero della Difesa russo, si vedono circa 100-150 marinai in fila davanti all’ammiraglio Evmenov, capo della marina russa in Crimea. “Non si sa quanti di loro facessero effettivamente parte dell’equipaggio della Moskva – osserva la Gazeta – che negli anni recenti viaggiava con 400-500 persone a bordo”.
Le versioni dell’affondamento
La Russia sostiene che il Moskva è affondato dopo un’esplosione nel deposito di munizioni. Secondo i russi lo scafo danneggiato è stato poi colpito da una tempesta mentre lo rimorchiavano verso Sebastopoli. La spiegazione però non regge di fronte alle evidenze meteo: le condizioni meteo non erano tali da spazzare via l’unità.
L’Ucraina, invece, sostiene di aver colpito l’ammiraglia della flotta russa nel Mar Nero con un missile.
Il Pentagono ha confermato la versione di Kiev: l’incrociatore russo è stato centrato da due missili lanciati dagli ucraini. L’unità navale era a circa 65 miglia a sud di Odessa, nel raggio d’azione dei Neptune, un’arma prodotta localmente in Ucraina. Un drone di fabbricazione turca avrebbe reso ancora più preciso il bersaglio. C’è chi ipotizza che satelliti americani e Nato abbiano aiutato i militari ucraini a colpire con estrema precisione la parte più debole della nave russa.
Come riporta Corsera, un esperto ha sottolineato come i russi abbiano da sempre sottovalutato la portata degli apparati anti-nave di Kiev, al punto che lo avevano anche scritto in alcuni report. Un errore madornale aggravato dai movimenti dell’ammiraglia, ripetuti al punto da facilitare il compito alla resistenza. Era come una sentinella in una «trincea» marittima, da quasi 50 giorni impegnata in una missione a basso rischio. Ed è stata colta di sorpresa da un’arma sviluppata nel 2021. Nell’arco di poche ore tutto è stato rovesciato e una mezza dozzina di navi che partecipavano al blocco si sono allontanate, a testimonianza del timore di nuovo attacchi.