Il Governo tradisce i militari

Passa la competenza del giudice amministrativo sul comportamento antisindacale delle amministrazioni militari

(di Cleto Iafrate, Segretario Generale SIM Guardia di Finanza) Quanto accaduto ieri in commissione Difesa alla Camera è un fatto molto grave perché la Lega, insieme a Forza Italia e altre forze dell’opposizione hanno negato ai lavoratori in divisa le tutele che l’ordinamento riconosce alle altre categorie di lavoratori. Hanno stabilito che le controversie promosse dalle associazioni sindacali militari siano deferite al giudice amministrativo, piuttosto che al giudice ordinario, come prevede lo Statuto dei Lavoratori.

Il progenitore del giudice amministrativo

I giudici del massimo organo di giustizia amministrativa sono appellati “Consiglieri” in ragione del fatto che in origine essi erano i “Consiglieri del Re”. L’organismo, nato nel 1831, aveva lo scopo di assistere e consigliare il sovrano. Per la precisione, antesignano dell’organo è considerato il Consilium nobiscum residens del Ducato di Savoia, regolamentato da Amedeo VIII nel 1430. Presieduto dallo stesso Duca, aveva la capacità di sostituirsi al Principe nel governo del Paese e ne facevano parte i più importanti nobili del Ducato. Aveva diverse competenze amministrative e giudiziarie. Queste ultime si sostanziavano nell’assistere il sovrano nello svolgimento della sua funzione di detentore della giurisdizione suprema.

Oltre un secolo dopo, deposto il Re, nel corso del dibattito in Assemblea Costituente sui nuovi rapporti tra il potere esecutivo e quello giudiziario si discusse a lungo su quale dovesse essere la sorte dei “discendenti dei consiglieri del Re” e se avesse ancora un senso tenere l’organismo in vita.
Tra coloro che consideravano esaurite le ragioni storiche per cui erano state create le Sezioni del Consiglio di Stato vi era Piero Calamandrei. Il Padre costituente nel corso della seduta pomeridiana di giovedì 9 gennaio 1947 propose di trasferire alla Magistratura ordinaria le funzioni che le Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato avevano fino ad allora adempiuto. Intendeva, cioè, trasformare il Consiglio di Stato in Sezione specializzata degli organi giudiziari ordinari, con la competenza a risolvere tutte le controversie fra i cittadini e la pubblica Amministrazione.
Nel corso del dibattito, allo scopo di sostenere la sua proposta, Calamandrei citò il seguente passaggio ripreso da una relazione precedentemente redatta dallo stesso Consiglio di Stato: «Ad assicurare la completa indipendenza del Consiglio di Stato, condizione inderogabile per l’efficace e sereno esercizio dell’alta funzione, pare necessario svincolare l’istituto da ogni rapporto di subordinazione e da ogni ingerenza del potere esecutivo, collocando questa Magistratura fuori dell’ordinamento gerarchico dello Stato». E poi aggiunse: «mantenendo in vita puramente e semplicemente le Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, come sono ora costituite, si conserverebbero degli organi che, per riconoscimento dello stesso Consiglio di Stato, non hanno attualmente quell’indipendenza che è stata ritenuta essere requisito essenziale del potere giudiziario
La proposta di Calamandrei fu respinta con diverse argomentazioni, che si possono riassumere nei seguenti tre passaggi ripresi dalla risposta che l’on. Aldo Bozzi diede a Calamandrei:

  1. «se questo istituto ha sempre funzionato bene, se ha dato prova di indipendenza, se ha concorso a mantenere la legalità nella pubblica Amministrazione, non vi è alcuna necessità di portarvi un così profondo rinnovamento»;
  2. «il Consiglio di Stato ha sempre dimostrato di possedere un grande spirito di indipendenza»;
  3. «[Se trasferissimo alla Magistratura ordinaria le funzioni del Consiglio di Stato] si avrebbe una forma di contaminazione del giudice togato il quale, abituato all’applicazione rigida della legge, dovrebbe invece decidere in una materia nella quale domina la valutazione del pubblico interesse … i giudici togati (sono) portati per loro conformazione mentale ad applicare rigidamente la legge anche in materia dove è necessario invece contemperarne l’applicazione con la valutazione del pubblico interesse, unendo cioè alla rigidità del giudice “la duttilità dell’amministratore».

A proposito di “spirito d’indipendenza”  e “duttilità dell’amministratore”.

In relazione all’asserito spirito di indipendenza, non si può non rilevare che oggi alcuni magistrati amministrativi – talvolta in posizione di fuori ruolo – hanno incarichi presso i gabinetti e gli uffici legislativi dei Ministeri e anche nella segreteria della Presidenza della Repubblica, della Presidenza del Consiglio dei ministri. Altri invece provengono direttamente dalle pubbliche amministrazioni.

Vien da chiedersi: una tale commistione di funzioni (giudiziarie e amministrative) – che secondo alcuni potrebbe addirittura incrinare il principio fondamentale di separazione dei poteri (giudiziario, legislativo ed esecutivo) su cui si fonda la nostra Repubblica – che riflessi ha sullo spirito di indipendenza del giudice amministrativo?  

Secondo quanto diramato dallo stesso Ministero della difesa, in Italia viene respinto il 95 per cento dei ricorsi proposti dai militari. Questo dato, già in sé allarmante ed anomalo, deve essere valutato considerando che nel 5 per cento dei ricorsi accolti sono compresi quelli puramente strumentali, proposti cioè per accedere ad atti amministrativi, per obbligare l’amministrazione a rispondere ad istanze o per chiedere l’ottemperanza di una sentenza. Di conseguenza, il numero dei ricorsi utili vittoriosamente esperiti contro il Ministero della difesa è ben inferiore al 5 per cento.

Per quanto attiene, invece, alla maggiore duttilità, siamo sicuri che il pubblico interesse si realizzi attraverso amministratori più duttili?

Si consideri che “duttilità” è sinonimo di flessibilità, pieghevolezza e antonimo di resistenza.
Ma flessibile e pieghevole rispetto a quali interessi?

Di seguito tre esempi relativi a tre momenti della vita di un militare: il trasferimento, la carriera e la disciplina.

  1. Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato i trasferimenti d’autorità dei militari rientrano «nella categoria dell’ordine del superiore gerarchico e attengono, in buona sostanza, ad una semplice modalità di svolgimento del servizio sul territorio». Pertanto, «rientrando nel genus degli ordini, sono sottratti alla disciplina generale sul procedimento amministrativo dettata dalla legge 241 e, pertanto, non necessitano di particolare motivazione». Un militare, dunque, può essere trasferito d’autorità con una semplice formula di stile, del tipo: “incompatibilità ambientale”.

Si ritiene che un giudice togato, meno duttile di quello amministrativo, dovendo valutare un trasferimento per incompatibilità ambientale di un militare, si dissocerebbe da un tale orientamento e, probabilmente, direbbe all’amministrazione: «ALT, se non mi dici a che cosa è incompatibile o a quale elemento ambientale è allergico – se non mi dici da dove emerge questa ‘supposta’ intolleranza/incompatibilità – io sono indotto a sospettare che con una formula di stile ci si voglia liberare di un investigatore scomodo, magari troppo scrupoloso o zelante».

  1. E ancora, nel caso l’ente militare stabilisca che la “rapidità dei processi mentali” di un militare sia superiore a quella dei suoi parigrado, avvantaggiandolo, così, nella progressione di carriera, il giudice togato, che mentalmente è più rigido, probabilmente, direbbe: “ALT, se non mi mostri questa ‘supposta’ maggiore rapidità dei processi, magari attraverso “l’RX cranio 3D”, io sono indotto a sospettare che un così lusinghiero giudizio obbedisce più a logiche di cooptazione e di cordate che di merito”.

L’aiutino” in fase di avanzamento rende ricattabile il dirigente promosso, inserendolo in un circolo vizioso che Raffaele Cantone qualche anno fa ha definito “cono d’ombra” allorquando ha dichiarato che «le persone “perbene”, oneste e con senso civico non riescono a fare carriera all’interno della pubblica amministrazione. Spesso vengono emarginate proprio perché hanno un’etica del lavoro».

  1. Sempre il giudice togato, nel caso si trovi a decidere sul ricorso di un finanziere o un carabiniere sanzionato disciplinarmente per “capelli lunghi”, diversamente dall’amministratore duttile, probabilmente, direbbe: “ALT, se non mi dici al di sopra di quanti centimetri i capelli sono da considerarsi lunghi, io sono indotto a sospettare che le norme di tratto siano interpretate per gli amici ed usate come clava per i nemici e che, in generale, la mancata tipizzazione e l’estrema genericità delle norme disciplinari hanno lo scopo di far sentire il tuo tallone costantemente sul collo del subalterno, affinché a nessuno(*) venga mai in mente di far valere i propri diritti”.
    (*)Unum castigabis, centum emendabis.

Conclusioni

Chi ieri ha negato ai militari la giurisdizione del giudice del lavoro in caso di comportamento antisindacale sa bene che l’assenza di tutele e una giurisprudenza troppo duttile garantiscono al potere un’obbedienza militare cieca e assoluta. Non solo del fante o dell’alpino, ma anche del carabiniere e del finanziere. Si consideri che ancora oggi gli ordini militari devono essere, eventualmente, contestati all’interno dello stesso Ente militare: è come dire a Cappuccetto Rosso di rivolgersi al lupo piuttosto che al cacciatore!

 

 

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