Il nuovo Giappone di Ishiba

di Fabrizio Ciannamea

All’esito delle elezioni più affollate ed incerte degli ultimi anni, Shigeru Ishiba è stato eletto presidente del Jimintō, il Partito liberal-democratico (PLD) giapponese, attualmente alla guida della coalizione di maggioranza sia nella Camera alta che bassa della Dieta. 

Il sessantasettenne Ishiba ha superato – per 215 voti a 194 – al ballottaggio nel secondo turno delle elezioni per la guida del PLD, Sanae Takaichi, ministro dello Stato per la sicurezza economica nel governo Kishida, che, ove eletta, sarebbe potuta diventare la prima donna in Giappone a rivestire la carica di primo ministro. 

Ishiba si appresta, quindi, ad essere nominato premier nell’ambito della seduta parlamentare straordinaria prevista per il prossimo 1° ottobre. In Giappone, infatti, chi guida il partito di maggioranza è tendenzialmente posto anche a capo del governo. 

Ishiba è un personaggio di lungo corso nella politica giapponese, che conosce da tempo i meccanismi che muovono le istituzioni nipponiche e lo stesso PLD. Inizia la propria carriera in Sumitomo Mitsui, un importante gruppo bancario con sede a Tokyo. Poi lascia per dedicarsi alla politica: nel 1986, appena ventinovenne, viene eletto, nel collegio di Tottori, tra le fila del PLD come membro della Camera dei rappresentanti, ossia la Camera bassa della Dieta. È il più giovane, sino a quel momento, a rivestire tale carica. 

Da deputato si occupa in un primo momento di politiche agricole, ma manifesta sin da subito interesse per il mondo della Difesa e della Sicurezza. Tale interesse lo porta a fine 2000, sotto il governo di Yoshirō Mori, ad essere nominato vicedirettore generale del ministero della difesa, per poi diventare nel 2002 direttore generale del medesimo Dicastero nell’ambito del governo Koizumi. Nel 2007 il primo ministro Yasuo Fukuda lo promuove ministro della Difesa. L’anno seguente l’esecutivo cambia: a Fukuda succede Tarō Asō e Ishiba viene posto, invece, a capo del ministero dell’Agricoltura. 

Con Shinzō Abe come presidente del PLD e primo ministro, Ishiba si inserisce in una corrente interna al partito contraria allo stesso Abe. 

Si è candidato ben cinque volte alla presidenza del partito. Nel 2012 è andato vicino alla vittoria, ma è stato sconfitto, di poco, da Abe, che poi lo ha nominato segretario generale del PLD al fine di mantenere un equilibrio interno al partito. Ieri, invece, è arrivato il suo turno: la perseveranza, alla fine, ripaga. 

Sotto il profilo religioso, Ishiba è un cristiano protestante, il cui credo è riconducibile alla più grande organizzazione del cristianesimo protestante in Giappone denominata Nihon KirisutoKyōdan. Ma pare mantenga buoni rapporti sia con il mondo buddista – va ricordato che, al momento, la coalizione di maggioranza parlamentare è composta, oltre che dal Jimintō, anche dal Kōmeitō, partito di ispirazione buddista – che con quello shintoista. 

Sul fronte interno, saranno molte le sfide che dovrà affrontare nei prossimi mesi, tra cui traghettare il Paese alle elezioni legislative previste per la seconda metà del 2025, oltre a contrastare la crescente inflazione ed il calo dei salari reali. Dovrà anche risollevare il PLD, colpito dai recenti scandali che hanno interessato alcuni esponenti per la gestione illegittima di fondi elettorali. 

Con riferimento al settore energetico, Ishiba pur dichiarandosi in passato a favore dell’utilizzo di energie rinnovabili – in un Paese in cui la maggior parte dell’approvvigionamento si fonda sull’importazione di fonti non rinnovabili –, come riportato da Reuters, ha recentemente affermato di voler mantenere in azione taluni reattori nucleari, seguendo l’impostazione adottata da Kishidache ha escluso più volte la dismissione delle centrali nucleari.  

Sul fronte della politica estera, il nuovo governo dovrà fare i conti con le crescenti tensioni internazionali che vedono contrapporsi, da un lato, gli Stati Uniti con i propri alleati – tra cui Giappone e Corea del Sud – e Cina, dall’altro. Tali tensioni interessano soprattutto il Mar Cinese Meridionale: è solo di ieri la notizia che lo scorso 25 settembre un cacciatorpediniere nipponico, affiancato da una nave di supporto classe Polar neozelandese e da un cacciatorpediniere missilistico australiano avrebbero attraversato, in direzione occidentale, lo stretto di Taiwan. 

Proprio per gestire tali tensioni, durante la campagna elettorale appena conclusasi, l’attuale presidente del PLD ha detto di essere favorevole alla costituzione di una NATO in versione asiatica. La proposta «si inserisce in un dibattito in corso da tempo in Asia orientale tra gli alleati degli Stati Uniti >> ha spiegato a PRP Channel, Antonio Moscatello, giornalista dell’agenzia di stampa Askanews e profondo conoscitore del Giappone. <<In Asia, prosegue Moscatello, il sistema delle alleanze è più articolato di quanto non lo sia in Europa, dove c’è la NATO. È caratterizzato da una serie di accordi bilaterali tra singoli Paesi e gli Stati Uniti. Si pensi al SOFA, lo Status of Forces Agreement, stipulato tra USA e Giappone. Oppure al Trattato di sicurezza firmato tra USA e Corea del Sud o agli accordi tra USA ed Australia o USA e Filippine». 

A tali accordi bilaterali, negli anni, si sono aggiunti anche accordi multilaterali, come il Quadrilateral Security Dialogue, che prevede una cooperazione strategica informale tra Australia, Giappone, Stati Uniti ed India. 

«Il progetto di una NATO in versione asiatica ha una sua concretezza – ha aggiunto Moscatello –ma che si possa sviluppare o meno dipende molto da chi vincerà le elezioni negli Stati Uniti il prossimo novembre: se Kamala Harris o Donald Trump. Harris presumibilmente seguirà il percorso tracciato da Biden e una semplificazione del sistema delle alleanze in Asia orientale sarebbe preconizzabile. Se vincesse Trump, invece, sarebbe difficile stabilire cosa accadrà; anche perché nel precedente mandato sia con la NATO che anche con lo stesso Giappone, Trump ha avuto un atteggiamento piuttosto ondivago». 

Ishiba, in altre parole, vorrebbe vincolare tra loro i Paesi asiatici alleati degli Stati Uniti e questi ultimi, attraverso la conclusione di uno specifico trattato, che preveda presumibilmente anche un automatismo di difesa nel caso in cui uno di questi venga attaccato da forze nemiche. In tale alleanza «il Giappone potrebbe contare un po’ di più – dice Moscatello -, divenendo così la seconda potenza dopo gli USA»

Dall’altro lato, però, Ishiba vorrebbe creare una maggiore equiparazione relazionale tra Giappone e Stati Uniti che, come riportato dall’Asahi Shimbun, passerebbe anche dalla modifica del SOFA, il Trattato di sicurezza concluso tra Giappone e Stati Uniti nel 1960 e che, tra le varie cose, disciplina le operazioni militari effettuate dagli Stati Uniti su suolo nipponico. 

Il SOFA è stato oggetto di critiche da parte dell’opinione pubblica giapponese, che considera le clausole relative alla punizione dei crimini commessi da militari americani in Giappone troppo squilibrate a favore degli Stati Uniti.

La modifica di tale Trattato rappresenta terreno scivoloso nell’ambito del dibattito politico interno al Giappone anche perché nella storia del Paese «solo il primo ministro Morihiro Hosokawa, espressione del Rikken-minshutō, ossia il Partito Costituzionale Democratico, al momento all’opposizione, ha provato a dismetterlo qualche anno fa – ha chiarito Moscatello – e su questo punto ha perso la poltrona, scomparendo poi dalla vita politica». 

Il presupposto per rivedere il SOFA, in realtà, sta nella modifica dell’articolo 9 della Costituzione nipponica, scritta durante l’occupazione statunitense. Con questa norma il Giappone ha rinunciato “per sempre alla guerra” e al mantenimento “delle forze di terra, mare ed aria”, così come di qualsiasi altro mezzo bellico. 

In altre parole, finché l’articolo 9 non viene modificato, il Giappone non può disporre pienamente delle proprie Forze Armate, che al momento sono chiamate Forze di autodifesa. Questo crea un cortocircuito all’interno del sistema istituzionale e difensivo del Paese, oltre che nei rapporti con gli Stati Uniti. 

La norma «pone dei vincoli all’utilizzo delle Forze di autodifesa – dice Moscatello –. Sulla riforma di questo articolo si gioca la vera partita, nel senso che non si può proprio pensare di poter modificare il SOFA senza aver prima cambiato la norma costituzionale. Modificarla però significa avventurarsi lungo un percorso giuridico molto difficile che dovrebbe passare da un referendum,con un risultato incerto. Gli ultimi sondaggi sul referendum – ha proseguito Moscatello – davano un leggero vantaggio per il sì. Quel sondaggio, però, faceva riferimento alla modifica, molto limitata della norma, nella versione proposta da Kishida e voluta in realtà da Abe, che prevedeva l’aggiunta di un solo comma attraverso cui prendere, formalmente e semplicemente, atto dell’esistenza delle Forze di autodifesa. Nulla di più. Ma questo non cambia le regole di ingaggio. Su questo punto sono spaccati non solo nell’opinione pubblica ma anche all’interno del PLD». 

Il punto centrale della questione è che la revisione del SOFA, in questo momento, «non è nell’interesse degli statunitensi – conclude Moscatello – che si troverebbero a privarsi di una egemonia politica e militare in una regione così delicata e centrale per loro». 

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