“Direi, lanciando una provocazione, che una escalation – se si potesse escludere il ricorso ad armamento nucleare – sarebbe paradossalmente necessaria, così come lo sarebbe un maggior coinvolgimento della NATO. Ciò, infatti, a mio avviso, creerebbe le condizioni per accelerare la fine delle ostilità. La Russia ha dato ampia dimostrazione di non saper combattere e l’Occidente ha sopravvalutato la capacità bellica russa”, così il Generale Leonardo Tricarico, presidente Fondazione ICSA in un inciso dell’intervista
di Gianluca Luchena e Annalisa Imparato
Nell’intervista che segue, abbiamo chiesto al Generale Leonardo Tricarico, già consigliere militare del Presidente del Consiglio dei Ministri, Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare e attualmente Presidente della Fondazione ICSA, di illustrarci il suo punto di vista in merito ad alcune tematiche di stringente attualità, con uno sguardo in particolare sulla guerra in Ucraina, sul ruolo della NATO e sulla tanto dibattuta tematica della Difesa comune europea.
Sig. Generale, innanzitutto grazie per averci concesso il privilegio di poterla intervistare. In un momento così preoccupante dal punto di vista securitario a livello internazionale, in cui si alternano i punti di vista più disparati, è importante potersi fermare un momento a riflettere ascoltando l’opinione di chi, come lei, vanta una importantissima esperienza in campo militare e ha avuto ruoli istituzionali di assoluto rilievo.
La prima domanda che vorremmo farle è sulla guerra in Ucraina. Fino a poco tempo fa, vi era stata una certa ritrosia da parte del mondo occidentale – e degli USA in primis – a fornire all’Ucraina caccia e sistemi di ingaggio di precisione in profondità. L’intento chiaramente era quello di limitare il supporto a Kiev a materiali ed equipaggiamenti difensivi, evitando che potesse colpire la Russia sul suo territorio. Recentemente, però, come noto, la Camera dei Rappresentanti di Washington prima, e il senato poi, hanno votato a favore di un nuovo pacchetto di aiuti, l’“Ukraine Security Supplemental Appropriations Act” del valore di 60,8 miliardi di dollari. Tale evento, rappresenta un passaggio potenzialmente cruciale per il futuro del conflitto e giunge in uno dei momenti più difficili per l’Ucraina dall’inizio delle ostilità. Ma, ciò che forse porta ad una nuova fase la guerra, è la decisione di dotare Kiev di caccia F-16 e missili ATACAMS con gittata fino a 300 Km. Ci può spiegare perché queste nuove armi fanno tanto discutere e perché potrebbero essere determinanti nell’economia della guerra?
Una domanda abbastanza complessa che prevede però prima una precisazione. In generale, non condivido l’assunto – divenuto poi opinione diffusa – secondo il quale un Paese invaso, “sfregiato” da bombardamenti costanti e ferito dal punto di vista sociale debba limitarsi a difendersi entro i propri confini per evitare una possibile escalation. Ritengo, infatti, sacrosanto che questo caveat di limitare l’azione ucraina venga eliminato e che Zelens’kyj si possa spingere oltre i propri confini nazionali fino ai limiti consentiti dal range massimo dei sistemi d’arma che gli sono stati forniti, con l’obiettivo di colpire obiettivi militari, come ad esempio i centri di stoccaggio di munizionamento e gli hub logistici. È chiaro, infatti, che per fiaccare la capacità offensiva della Russia interrompendo questa fase operativa che la vede in vantaggio da un punto di vista tattico, è fondamentale tagliare le vie di rifornimento logistico, in modo da ridurne la readiness e la sostenibilità dell’azione militare. Ciò può essere fatto ribilanciando le forze in gioco, puntando sulla qualità, ossia incrementando le capacità militari dell’Ucraina, mettendole a disposizione armamenti più performanti, come peraltro sta facendo l’Italia.
Con riferimento agli F-16, vorrei precisare che si tratta di sistemi multiruolo molto efficaci, ossia di velivoli in grado di affrontare diverse missioni (di attacco, di difesa, di guerra elettronica, ecc.) in base all’allestimento con cui operano e che, quindi, di sicuro potranno incrementare la capacità ucraina di difendere il proprio territorio. Tali sistemi d’arma, tuttavia – per poter essere sfruttati al massimo del loro potenziale – richiedono sia che i piloti siano opportunamente addestrati, sia che le infrastrutture aeroportuali e la logistica siano adeguate. Ora, con riferimento al primo aspetto, ritengo che – in una situazione di guerra come quella in corso tra Ucraina e Russia – il processo formativo possa essere notevolmente velocizzato, mettendo i piloti ucraini in poche settimane nelle condizioni di utilizzare i citati velivoli. Per quanto concerne le infrastrutture, invece, ci potrebbe volere più tempo e ciò potrebbe rappresentare una criticità nel breve periodo, anche in considerazione del fatto che questo tipo di aeroplani richiede standard al decollo molto elevati. Anche il numero di questi aeroplani è determinante: certo, poche decine di velivoli non cambieranno le sorti della guerra, ma comunque potranno fornire un prezioso contributo. Lo stesso vale per gli “ATACAMS”, missili che consentono un ingaggio di precisione a distanze considerevoli, fino a 300 Km che, se dovesse cadere la riserva di uso di equipaggiamento esclusivamente entro i confini territoriali ucraini, potranno sicuramente consentire di ingaggiare High Value Target militari russi, sostenendo così l’azione ucraina.
In alcune precedenti interviste ha dichiarato che è poco verosimile che Putin decida scientemente di attaccare un Paese membro della NATO. Sappiamo, infatti, che tale eventualità attiverebbe l’art. 5 del Patto Atlantico che porterebbe gli altri Paesi ad intervenire in difesa dello Stato che è stato attaccato. Non crede tuttavia che, l’“incoraggiamento” occidentale all’ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza prima e l’innalzamento del livello degli aiuti militari con piattaforme e armamenti sempre più performanti e sofisticati poi, possa spingere Putin ad una reazione sproporzionata, tale da generare una pericolosa escalation?
Direi, lanciando una provocazione, che una escalation – se si potesse escludere il ricorso ad armamento nucleare – sarebbe paradossalmente necessaria, così come lo sarebbe un maggior coinvolgimento della NATO. Ciò, infatti, a mio avviso, creerebbe le condizioni per accelerare la fine delle ostilità. La Russia ha dato ampia dimostrazione di non saper combattere e l’Occidente ha sopravvalutato la capacità bellica russa. D’altro canto, la NATO ha invece sia capacità sia procedure ben collaudate ed efficaci per costringere la Russia a rivedere le sue ambizioni. Oggi tutti invocano la pace, ma la verità è che non c’è un’idea chiara e praticabile di come arrivarci. Chi poteva fare veramente qualcosa di serio in tal senso era la Cina che, in occasione del primo anniversario della guerra in Ucraina, il 24 febbraio 2023, propose un piano di pace in 12 punti, sebbene tale proposta fu poi irresponsabilmente messa da parte. Vorrei peraltro far notare che i primi due punti del citato documento, erano a mio avviso determinanti e fondamentali, in quanto si poneva quale condizione quella di: rispettare la sovranità di tutti i Paesi, ai sensi del diritto internazionale universalmente riconosciuto, compresi gli scopi e i principi della Carta delle Nazioni Unite; abbandonare la mentalità della guerra fredda, affermando che la sicurezza di un Paese non doveva essere perseguita a spese di altri. Ciò, in altre parole, richiedeva che la NATO interrompesse la sua espansione a Oriente, così come peraltro era stato precedentemente garantito.
Forse, mancava un punto 3, ossia la tutela dei russi in ucraina, per evitare violenze e ritorsioni. In tutti i casi, come ho detto, il piano non fu poi accolto dalle parti, ma ritengo rappresenti una piattaforma ottima su cui costruire, sebbene oggi, con le annessioni che ci sono state da parte di Mosca, la situazione appare più complessa e probabilmente la soluzione che si prefigura e che potrebbe essere ritenuta più verosimile è quella del “modello Corea”, con una linea di demarcazione artificiale che divida in due parti il territorio ucraino.
Quest’anno, a novembre, ci saranno le elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Se dovesse vincere Trump, la postura americana in Ucraina – e non solo – potrebbe variare radicalmente. Crede che ciò possa rappresentare un momento di svolta per la guerra russo-ucraina?
Si, assolutamente. L’arrivo di Trump potrebbe in qualche modo cambiare radicalmente la situazione, probabilmente con una cristallizzazione delle annessioni da parte della Russia, che dunque vedrebbe l’Ucraina nella condizione di dover accettare lo status quo rivedendo i confini del suo territorio.
Sig. Generale, Lei ha detto chiaramente che “La Casa Bianca vuole annientare Putin come uomo, e la Russia come Paese”. Ha poi aggiunto, però, che tali scelte, “compromettono seriamente i nostri interessi di europei”. In passato, tra i tanti prestigiosissimi incarichi, è stato Consigliere Militare del Presidente del Consiglio dei Ministri, con ben 3 differenti Premier. Se rivestisse quel delicato ruolo oggi, cosa consiglierebbe al Presidente del Consiglio con riferimento alla strategia e alla postura nazionale nei confronti della guerra ad Est?
Finora è stato fornito aiuto militare e non solo in modo incondizionato. Occorre a mio avviso, invece, porre una condizionalità, ossia che gli aiuti vengano forniti a patto che ci sia un reale sforzo nel cercare un “punto di caduta”, avviando delle consultazioni tra le parti, così come peraltro previsto dall’art. 4 del “Trattato del Nord Atlantico”. È vero che c’è un “Gruppo di contatto per la difesa dell’Ucraina” (Ukraine Defense Contact Group, UDCG), noto anche come Ramstein Group, nato dall’alleanza di 54 Paesi (tutti i 31 Stati membri della NATO e altri 23 Stati che non fanno parte dell’Alleanza), ma quello che occorrerebbe è un vero e proprio trattato di pace, in sede ONU per esempio. Solo così, ritengo, avviando una conferenza di pace, rilanciando consultazioni serrate e cercando una soluzione di compromesso ripartendo possibilmente da Minsk e riaggiornandolo, si potrà concretamente giungere alla fine delle ostilità.
Con riferimento all’Europa, invece, pensa sia opportuno e sensato spingere nella direzione di Forze Armate Europee? Perché?
Penso che invece di continuare a dibattere dell’argomento, occorrerebbe procedere cercando di capire come tracciare una way ahead credibile e concreta. A tal proposito, lo Strategic Compass, il documento che l’Alto Rappresentante per la Politica Estera ha presentato subito dopo lo scoppio delle ostilità in Ucraina, quale importante risposta per rafforzare la politica di sicurezza e di difesa dell’UE entro il 2030, si è in realtà dimostrato fin troppo poco ambizioso. Prevede, infatti, tra le altre cose, quale sforzo massimo e quale output concreto, la creazione di una capacità di dispiegamento rapido, forte di un massimo di 5.000 militari per diversi tipi di crisi. Né vi sono all’orizzonte altre iniziative in tal senso. Ancora una volta l’elezione di Trump potrebbe costituire un punto di svolta, anche se obiettivamente non ritengo che effettivamente l’Europa possa ravvedersi, incamminandosi convintamente verso un serio percorso di condivisione nel settore della Difesa.
Ho però personalmente una mia idea di cosa fare per raggiungere questo ambizioso obiettivo. Innanzitutto occorre superare l’ostacolo inziale, quello per il quale se l’Europa non ha una politica estera comune non possa conseguentemente avere una difesa comune. Preciso che tale assunto è in parte vero, qualora cioè si voglia impiegare un ipotetico strumento militare europeo. Nessuno ci impedisce, però, prima ancora di schierare e di impiegare un Esercito comune di predisporlo, di costituirlo e di prepararlo, operando per step successivi e complementari. Un esempio è quello della formazione. Vi sono ampi margini per standardizzare e accorpare la formazione del personale, muovendo ad esempio da realtà già consolidate, come quella dell’International Flight Training School di Decimomannu, in Sardegna, dove l’Aeronautica militare organizza dei corsi a cui prendono parte piloti militari provenienti da ben otto nazioni. Su questo modello, si potrebbe procedere anche in altri settori, guardando ad esempio allo sviluppo/costituzione di quelle capacità che ancora mancano in Europa, superando – con una forte volontà politica comune – gli interessi privatistici riconducibili alle differenti realtà industriali nazionali. Aiuterebbe a mio avviso, inoltre, l’individuazione della figura di un “Alto Rappresentante per la Difesa – addetto alla transizione” che si occupi in modo specifico del build-up di una Difesa comune, ovviamente disponendo della necessaria autorità per: rapportarsi con il Consiglio europeo, ossia con i Capi di Stato o di Governo degli Stati membri dell’UE, dai quali ricevere l’autorizzazione per procedere con un chiaro mandato e un obiettivo definito; dare disposizioni alle Nazioni e agli Stati maggiori della Difesa dei Paesi Membri, per procedere all’implementazione di quanto deciso.
Occorrerà chiaramente superare l’ostacolo più grosso, che – come già accennato – è a mio avviso quello costituito dalle industrie del comparto della Difesa, nell’ottica di ricercare una cooperazione credibile e solida tra le stesse, superando gli interessi di parte. Non è possibile, solo per fare alcuni esempi, avere in Europa progetti alternativi e in concorrenza tra loro per realizzare il caccia di 6^ generazione, oppure il carro armato del futuro.
Cambiando quadrante geografico e spostando l’attenzione verso la polveriera mediorientale, è noto che l’ennesima crisi tra Israele e Hamas nasce il 7 ottobre 2023, quando gruppi armati provenienti dalla striscia di Gaza conducono una serie di attacchi armati nel territorio di Israele uccidendo 1200 civili e militari israeliani e rapendone circa 250. Si è detto tanto su questa tragica guerra che, tuttora, miete vittime, tra cui purtroppo molti civili innocenti. Vorremmo però richiamare la Sua attenzione su un aspetto in particolare. Qualche giorno fa, il capo dell’intelligence israeliana, Aharon Haliva, ha rassegnato le sue dimissioni assumendosi la responsabilità dei fallimenti della sicurezza che hanno permesso a Hamas di sferrare l’attacco del 7 ottobre. Nella lettera di dimissioni, Haliva scrive che l’intelligence sotto il suo comando non è stata all’altezza del compito assegnato. Eppure, i Servizi Segreti israeliani sono considerati tra i più efficienti ed efficaci al mondo. Lei che è presidente della Fondazione ICSA, che tra le altre cose si occupa anche di tematiche connesse con l’intelligence, che idea si è fatto?
Questa è la domanda delle domande, soprattutto in Israele. I cittadini israeliani stessi non si spiegano come possa essere accaduto quell’attacco del 7 ottobre. Le dimissioni del generale vanno lette proprio nel profondo senso di responsabilità derivante da un’intima interiorizzazione – da parte della leadership istituzionale israeliana in generale – della missione di cui si sentono investiti, che è quella di difendere la propria popolazione. Probabilmente è stata sottostimata la capacità operativa di Hamas. Va anche detto che l’attacco è avvenuto in un giorno di festa e in un periodo particolarmente delicato per Israele, dove alcune componenti delle istituzioni israeliane erano un pò “fiaccate” da molti mesi di manifestazioni di piazza organizzate dal popolo in risposta alla volontà del governo Netanyahu di cambiare il sistema giudiziario. È anche verosimile ipotizzare che vi siano stati dei tentativi di depistaggio e dei doppi gioghi. Escluderei che la questione sia riconducibile a una scarsa capacità humint israeliana, come ipotizzato da alcuni osservatori che hanno evidenziato quale possibile causa quella di un affidamento troppo spinto sulla tecnologia ai danni della vecchia intelligence basata sulle relazioni umane. In tutti i casi, sono sicuro che al termine delle ostilità, le istituzioni israeliane andranno a fondo per individuare le cause di quanto accaduto ed evitare così che in futuro possa ripetersi un episodio della stessa gravità.
La sicurezza è quella cosa di cui ti rendi conto del bisogno, principalmente quando si verifica un evento che la mette a repentaglio. Tuttavia, sviluppare/acquisire capacità militari, organizzazione e mentalità necessarie, richiede tempo e continuità. Recentemente, la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza (DIS) ha firmato un accordo con il Ministero dell’Istruzione e del Merito (MIM) volto ad accompagnare i giovani alla scoperta di funzioni, compiti, organizzazione e protagonisti degli Organismi informativi, così come dei principali fenomeni di minaccia. In particolare, nell’ambito di questo accordo, ha preso il via il progetto “I come Intelligence”: un percorso itinerante rivolto agli studenti del primo biennio delle scuole superiori che permetterà ai giovani di esplorare la storia, il linguaggio, i protagonisti e l’organizzazione dei Servizi Segreti italiani, oltre alle principali minacce del mondo contemporaneo. Come vede questa iniziativa? Pensa ci sia bisogno, in Italia, di aumentare la cultura della sicurezza e, in generale, rinforzare la cultura della Difesa tra i giovani?
Temo che questa iniziativa, che io ritengo valida e sicuramente necessaria, possa svilupparsi su una base di partenza critica. In Italia, infatti, vi è una sorta di diffidenza strisciante sulla completa credibilità dei Servizi, aspetto questo che va risolto. Ritengo inoltre che occorra fare una profonda opera di revisione delle Agenzie, rinnovando la componente umana con l’inserimento di forze giovani e nuove competenze. Solo così si potrà essere al passo con la tecnologia che avanza a ritmi elevatissimi e rimanere competitivi. La stessa cosa ritengo vada fatta con la Difesa, stimolando nella società una maggiore consapevolezza dell’importante ruolo che essa ricopre, come sta facendo ad esempio il Ministro Crosetto, che ha istituito un team nell’ambito del Dicastero, con lo scopo proprio di individuare le modalità più efficaci per diffondere tra i giovani la cultura della Difesa.
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