Roberto Bongiomi su Il Sole 24 ore ha fatto un interessante editoriale sulle capacità estrattive di petrolio della Libia. Capacità che sfruttate “pacificamente”, renderebbero il paese africano tra i primi al mondo per quantità e qualità del greggio. A fine agosto veniva annunciata una promettente ripresa della produzione petrolifera, salita sopra il milione di barili al giorno, vicino ai massimi da inizio anno,peccato che nella periferia di Tripoli iniziavano gli scontri tra milizie rivali, ancora in corso, nonostante il flebile cessate il fuoco. Se nel 2018 la Libia ha mancato ancora una volta l’occasione di ritornare nel club dei grandi esportatori di greggio, le ragioni sono sempre le stesse: instabilità politica, rivalità interne, scioperi a singhiozzo e, soprattutto, le milizie che non esitano ad occupare i terminali petroliferi, spesso bloccando le attività per reclamare una fetta della ricca torta energetica.
Eppure, nonostante la cronica instabilità, il petrolio libico, ma anche il gas, fa ancora gola a molte compagnie energetiche. Perché è molto pregiato, è vicino, ed è tanto. La Libia, precisa la BP Statistical Review of World Energy 2018, possiede riserve accertate pari 48,4 miliardi di barili di petrolio, le più grandi in Africa. Ci sarebbero dunque le premesse per trasformare la Libia, il quarto Paese africano per superficie, ma con appena 7 milioni di abitanti, nella Svizzera dell’Africa. Ma non è così. Prima della rivolta contro Gheddafi il Paese produceva 1,65 milioni di barili al giorno (mbg). Dopo un avvio sorprendente, a partire dal 2014 la produzione è precipitata, crollando, nei momenti peggiori, a 20 mila barili. Sono anni che diversi gruppi armati non esitano a bloccare i terminali petroliferi, ad attaccare gli oleodotti, a minacciare i giacimenti per ottenere le loro contro-partite: sovente denaro o il rilascio di loro combattenti detenuti nelle carceri dei due rispettivi Governi che dal 2014 hanno spaccato il Paese in due, non esitando a guerreggiarsi nei momenti di maggior crisi. Eppure le potenzialità della Libia sono di prim’ordine. Negli anni 70 produceva tre milioni di barili al giorno. Con gli opportuni investimenti, avrebbe le carte in regola per sorpassare quel livello. Entro il 2022, la compagnia petrolifera nazionale, la Noe, punta a portare la produzione a 2,3 milioni di barili al giorno (obiettivo che richiederebbe investimenti per 18 miliardi di dollari). Ma chi è disposto ad investire in progetti in un Paese ostaggio di un mosaico di milizie? Proprio a causa dei crolli produttivi degli ultimi anni (nel 2013 le rendite petrolifere ammontavano a 40 miliardi di dollari, nel 2016 a 4,6 miliardi), il Governo di Tripoli ha dovuto affrontare una grave crisi economica. D’altronde la Libia è petro-dipendente: il settore degli idrocarburi rappresenta il 95% delle entrate governative e il 96% dell’export in valore. In presenza di istituzioni del tutto inefficienti, da alcuni anni è la Banca centrale, la sola entità realmente funzionante, ad amministrare le risorse ripartendole tra le due “Libie rivali”. Anche perché in un Paese che si è sdoppiato in tutto, con due Governi, e due amministrazioni, l’Esecutivo della Cirenaica ha ben pensato di creare un ramo della Noe a Bengasi, del tutto indipendente, anche se non riconosciuto dalla Comunità internazionale. Ogni volta che ha provato a vendere il petrolio estratto in Cirenaica, le petroliere sono state fermate al largo da navi militari straniere e spedite a Tripoli. Prima del giugno 2016 i due terminali strategici nella Mezzaluna petrolifera, Ras Lanuf e al-Sidra erano sotto il controllo delle Petroleum Facility Guard, guidata dall’ex ribelle Ibrahim Jidran, eroe agli occhi dei suoi sostenitori, ma per i suoi rivali un losco figuro che si arricchiva vendendo greggio di contrabbando. Autoproclamatosi garante della sicurezza dei terminal, in teoria alleato del Governo di Tripoli, Jidran ha spesso avuto un ruolo ambiguo. Una situazione intollerabile per il potente generale Khalifa Haftar, il signore della Cirenaica sostenuto da Egitto, Russia e via via anche dalla Francia. Haftar ha sempre accusato Tripoli di mala gestione delle risorse nazionali. Nel giugno del 2016, il suo potente esercito ha così occupato i terminal della Mezzaluna. Perdendoli nuovamente lo scorso giugno e riconquistandoli poco dopo. Proprio a fine giugno Haftar decise di consegnare i porti alla Noe. A quella di Bengasi. Scelta inopportuna. Quasi volesse mostrarsi disponibile al dialogo, e speranzoso che si svolgeranno le elezioni sponsorizzate dalla Francia dopo l’accordo (verbale) strappato dal presidente Emmanuel Macron in maggio, ha deciso di riconsegnarle alla Noe di Tripoli. Riaprendo le attività dei porti della Mezzaluna, la produzione è così risalita ai 600000 barili di luglio a più di un milione. Ma chi può escludere che Haftar non riprenda il controllo dei terminali? Nell’altra Libia, in Tripolitania, dove opera prevalentemente l’italiana Eni, i giacimenti di gas e greggio stanno proseguendo normalmente le attività. Ma anche in questo caso un colpo di testa di milizie rivali potrebbe far precipitare la situazione. Se l’Eni continua a restare il primo operatore libico, la francese Total appare decisa a consolidare la sua presenza. In marzo ha acquistato dall’americana Marathon Oil il 16% del giacimento di Waha (in Cirenaica) per 450 milioni di dollari. Un accordo però non ritenuto valido dal governo di Tripoli e dalla Noe. Fino a che il Paese resterà spaccato in due, fino a che le potenze regionali vorranno mantenere la loro sfera di influenza sulla Libia, cercando di ostacolarsi a vicenda, l’Eldorado nord-africano del petrolio resterà un’occasione mancata.