L’inviato in Libia del Corriere della Sera, Lorenzo Cremonesi, ha intervistato capi militari e politici per capire cosa davvero stia avvenendo sul campo a ridosso di Tripoli.
«La verità è che siamo stanchi di combatterci tra noi. Solo una piccola minoranza dei nostri guerriglieri ha optato per andare a difendere il governo di al Sarraj dall’offensiva della milizia di Tarhuna a Tripoli. Quasi tutti hanno scelto di restare a Misurata», spiega Abdel Rahman al Kot, 34enne comandante della «Al Mardas», una milizia di 250 guerriglieri che due anni fa era in prima fila a combattere contro Isis asserragliato a Sirte.
Nessuno degli altri comandanti parla di partire. È come se le battaglie di Tripoli, solo 200 chilometri da qui, non li riguardassero affatto. «Oggi è tutto diverso da quando eravamo pronti a offrirci volontari e morire a Sirte. Quella era una guerra giusta contro i terroristi jihadisti, tanti di loro fanatici stranieri. Questa invece è una guerra civile tra libici che non porterà a nulla, se non a nuovo sangue», aggiunge. Per lui sono i numeri a parlare chiaro: sulle circa 260 milizie grandi e piccole che compongono la forza militare di Misurata, il fiore all’occhiello delle rivolte contro Gheddafi nel 2011, solo quattro o cinque hanno scelto di andare a Tripoli. Difficile fare i conti precisi. Nessuno ha la lista dei volontari. Ma a grandi linee su circa l0.000 uomini in armi, meno di 500 sono schierati a Tripoli. «Ne abbiamo parlato a lungo tra noi. Ci sono state anche dispute violente. Ma pochi sono disposti a morire per Sarraj. In fondo il premier si è dimostrato un fallimento totale. Troppo debole, non ha alcuna conoscenza del mondo militare, non ha risolto la crisi economica, non sa avviare il dialogo interno per la pacificazione nazionale. Meno del 5 per cento di noi lo appoggia», dice Abdel Rahman. Una spiegazione più politica è offerta da Abu Bakr Sadawi, 44 anni, leader del partito locale «Conferenza del Fronte Nazionale», che mira a controllare il consiglio municipale di Misurata: «II fatto nuovo è che per la prima volta molti misuratini sono persino pronti a dialogare alla pari con Haftar, che invece sino a poco fa consideravamo come il diavolo». Sono dichiarazioni a dir poco stupefacenti. Quando combattevano contro Isis questi uomini affermavano con sicurezza bellicosa che Haftar era il loro nemico principale. Una sorta di agente straniero a metà strada tra Gheddafi e i peggiori jihadisti. «Dopo Sirte lo snideremo da Bengasi», proclamavano. Sadawi parla invece apertamente della necessità di avviare un solido «dialogo nazionale», aperto a tutti, da Haftar, ai capi di Tarhouna, Zintan, il sud ed il nord, incluso Saif al Isiam, il figlio più politico di Gheddafi che da tempo si dice vorrebbe candidarsi alle elezioni. «Anche lui, anche Saif, perché no? Dopo tutto è un libico come tutti noi», spiega. E anche questa è una novità. Sino all’autunno scorso a Misurata ti mostravano le rovine ancora ben visibili della guerra del 2011, quando le truppe scelte del Colonnello per lunghi mesi accerchiarono e bombardavano le milizie che compongono la forza militare di Misurata equivalenti a 10000 persone, di cui 500 soldati sono andati a Tripoli per Sarraj. La decina di interlocutori che abbiamo incontrato in quattro ore di interviste ha sostenuto di volere le elezioni, ma non nei tempi stretti proposti dal presidente francese Macron. «Votare il 10 dicembre? Sarebbe una follia. Non siamo pronti. C’è ancora troppo caos. Magari entro un anno», dicono. Apprezzano l’ospedale militare italiano, specie se aiuta a sviluppare quello di Misurata. Non vogliono soldati francesi sul suolo nazionale. «Nessun continente in armi deve stare sul nostro territorio. E sappiamo bene che unità francesi operano nel sud», dicono. Ma ciò non vuole dire affatto che sostengano le posizioni di Roma contro Parigi. Argomentano: «Le vostre dispute tra europei non ci riguardano. Saranno i libici a decidere della Libia». Credo che in Libia sia indispensabile dare sostegno alle autorità locali e alle aziende di Stato.