La posta in gioco è alta: non solo per le nazioni direttamente coinvolte, nel Mar Rosso e nel Mediterraneo, ma per l’intero equilibrio geoeconomico mondiale. E se il “Mare Nostrum” contasse di meno, i primi a rimetterci saremmo noi italiani
di Paolo Giordani – Presidente Istituto Diplomatico Internazionale
A sei mesi dall’inizio del conflitto a Gaza, le ripercussioni economiche globali sembrano contenute, con il mercato del petrolio stranamente immune dai sobbalzi che di solito accompagnano le crisi mediorientali. Tuttavia, la quiete del mercato non deve ingannare: le tensioni geopolitiche potrebbero presto esplodere in un conflitto di più ampia portata.
Da novembre, i ribelli yementi Houthi, attori non statali e membri dell’Asse di resistenza, hanno intensificato gli attacchi con missili e droni contro i mercantili in transito nel Mar Rosso. Questa rotta vitale collega l’Europa all’Asia, passando per il Canale di Suez e Bab al-Mandeb, ed è responsabile per il 12% del commercio globale, il 40% degli scambi tra Europa e Asia, il 30% delle spedizioni globali di container, il 12% del petrolio e l’1,8% del GNL mondiali. La gravità di questi attacchi è stata tale che persino colossi industriali, come Tesla, hanno dovuto interrompere la produzione, un fenomeno non visto dalla crisi del Covid-19. Sorprendentemente, l’inflazione non ha subito gli impatti temuti, in parte grazie alla capacità del settore marittimo, che si trova in un periodo di sovraccapacità, di assorbire lo shock. Tuttavia, per i porti mediterranei, inclusi quelli italiani, si è tradotto in una riduzione del 20% degli attracchi.
Le missioni navali occidentali, la Prosperity Guardian (anglo-americana) e Aspides (europea) sono state schierate per difendere la libertà di navigazione e pur avendo ottenuto alcuni successi, non garantiscono un traffico marittimo indisturbato. Nonostante ciò, gli attacchi persistono e più della metà del traffico marittimo continua a evitare il Mar Rosso, con perdite significative per l’Egitto, che ricava il 2% del suo PIL dai diritti di passaggio nel Canale di Suez. Resta incerto se le missioni saranno in grado di ripristinare la normalità o se sarà necessario un dispiegamento militare più massiccio, una soluzione forse insostenibile per l’Europa e i paesi rivieraschi nel lungo termine.
L’escalation del conflitto, con un coinvolgimento diretto dell’Iran, potrebbe infiammare ulteriormente la situazione nel Mar Rosso. Gli Houthi, rafforzatisi durante dieci anni di guerra civile in Yemen, sono pronti a intervenire massicciamente a fianco della Repubblica Islamica e non saranno facilmente neutralizzati da azioni militari sporadiche.
Di fronte a questo scenario, la necessità di una de-escalation a Gaza e di una stabilità regionale è più urgente che mai. È fondamentale che l’Europa si faccia promotrice di un impegno diplomatico ed economico volto a ristabilire la pace e a garantire una sicurezza duratura. Da questo punto di vista è significativa l’adesione dell’Ue, come “osservatore”, al Codice di condotta di Gibuti e all’Emendamento di Gedda, sottoscritto nel 2017 da 17 Stati dell’Oceano Indiano nordoccidentale per promuovere la cooperazione regionale e rafforzare la capacità dei firmatari di contrastare le crescenti minacce alla sicurezza marittima nel Golfo di Aden e nel Mar Rosso. L’adesione è stata annunciata lunedì 22 aprile. La posta in gioco è alta: non solo per le nazioni direttamente coinvolte, nel Mar Rosso e nel Mediterraneo, ma per l’intero equilibrio geoeconomico mondiale. E se il “Mare Nostrum” contasse di meno, i primi a rimetterci saremmo noi italiani.
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