La politica estera “liquida” di Trump manda in frantumi 50 anni di diplomazia americana

di Aniello Fasano

Solo un mese è trascorso dall’insediamento di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, ma lo scenario mondiale sembra già profondamente mutato. Chi avrebbe mai immaginato la prospettiva di una “riviera di Gaza” o la decisione del presidente americano di schierarsi con Putin contro Zelensky, infrangendo così la base morale che ha sostenuto per decenni la politica estera statunitense?

L’etica nelle relazioni internazionali è sempre stata un pilastro della politica estera americana. Ciò deriva in parte dal fatto che gli Stati Uniti sono emersi come grande potenza nell’era della democrazia. I leader americani hanno sempre giustificato il coinvolgimento in conflitti internazionali affermando che si trattava della “cosa giusta da fare”. Nessun’altra nazione ha combattuto tante guerre negli ultimi 120 anni senza che nessuna di esse fosse direttamente legata alla propria sopravvivenza o combattuta sul proprio territorio.

Per sostenere la proiezione globale del proprio potere, gli Stati Uniti hanno sempre cercato di giustificare sacrifici di sangue e capitali con un approccio etico. Sebbene molte delle loro guerre degli ultimi 50 anni siano state moralmente controverse – dal Vietnam all’Iraq, fino al sostegno a dittature brutali – i leader americani hanno costantemente cercato di dimostrare che “i fini giustificavano i mezzi”. L’obiettivo dichiarato era sempre quello di “estirpare il male”, una giustificazione che ha servito da strumento per orientare la politica interventista del paese.

In appena un mese di mandato, Donald Trump ha rivoluzionato l’approccio della politica estera americana. Mentre attaccava retoricamente l’Ucraina e il presidente Volodymyr Zelensky, recitando le formule della “bolla di disinformazione” di Vladimir Putin, molti americani si sono posti una domanda inquietante: “Siamo diventati noi i cattivi?”.

Attribuire la responsabilità primaria della guerra all’Ucraina, una nazione invasa da un vicino più grande e aggressivo, va ben oltre le argomentazioni, seppur controverse, secondo cui “la NATO ha spinto troppo oltre i confini dell’Occidente, provocando la Russia”.

Ci troviamo di fronte al più grande cambiamento di rotta della politica estera americana negli ultimi 50 anni: un presidente che approva apertamente un dittatore russo responsabile di una guerra totale contro l’Ucraina, caratterizzata da bombardamenti su città, assassinii di civili e deportazioni di bambini in Russia. Alcuni sperano che Trump, con la sua imprevedibilità, stia cercando una via rapida per la pace, costringendo l’Ucraina a rinunciare ai territori occupati. Altri credono che la sua strategia sia piuttosto quella di avvicinarsi alla Russia per allontanarla dalla Cina.

Ripercorrendo gli ultimi settant’anni di politica estera americana, la storia dimostra che i cinici, nell’eterna lotta tra bene e male, hanno sempre avuto torto e sono destinati a perdere. La morale ha sempre avuto un ruolo cruciale nelle decisioni che hanno plasmato l’era americana dal 1945 in poi.

Secondo il Times, “la visione strategica di Trump si basa su un nudo interesse personale, privo delle finezze della bontà e dell’equità”. Il suo atteggiamento verso la Russia è nettamente in contrasto con la visione della maggioranza del pubblico americano, che desidera essere dalla “parte giusta” della storia. Un sondaggio condotto dal Pew Research Group lo scorso anno ha rilevato che l’88% degli americani nutre scarsa o nessuna fiducia in Putin.

Forse Trump conta sul fatto che gli americani si schiereranno comunque con lui. Ma, per quanto possa disprezzare le nazioni e i leader deboli e ammirare gli uomini forti e spietati, dovrà trovare un modo per convincere tutti quegli americani che ancora non si sono schierati con i “cattivi” globali.

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