(di Giuseppe Paccione) Proprio l’ultimo giorno del mese di settembre, nel cuore del Cremlino si consumava una cerimonia, in cui l’inquilino Vladimir Putin stipulava dei trattati con le delegazioni di quattro entità costituite sul territorio ucraino le c.d. (farse) repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk e le oblast di Zaporizhzhia e Kherson. Chiaramente, per giungere a questo evento dell’annessione, si sono tenuti dei referendum nei citati lembi territoriali, accompagnati dal presunto esito popolare per l’adesione alla Russia.
Il modus operandi russo di annettere alcune parti territoriali ucraini è caratterizzato dalla condotta del tutto illecita, secondo il diritto internazionale, in primis, per la mera ragione che l’annuncio dell’annessione è stato preceduto dall’impiego dell’azione coercitiva di forza o manu militari da parte di Mosca in contrasto con la norma ormai divenuta di jus cogens e quasi imperativa della Carta delle Nazioni Unite che vieta il ricorso allo jus ad bellum. I referendum non corrispondevano ad alcuno standard internazionale e, dunque, non andrebbero denominati dei veri e propri referendum. Nella regione, inoltre, sono ancora in corso intensi scontri e, subito dopo la cerimonia nel cuore del potere di Putin, l’esercito ucraino liberava la città annessa Lyman nella regione del Donbass.
Ora, credo che sia doveroso focalizzare attorno all’illegalità dell’annessione russa dei territori dello Stato ucraino, sebbene pare abbastanza chiaro che tale annessione venga delineata come illegittima dal diritto internazionale stesso. Innanzitutto, ritengo necessario rispolverare la storia relativa alla illegalità delle annessioni, partendo dal ben noto Patto Briand-Kellog, del 1928, in cui si evidenzia con la firma che gli Stati rinunciavano al ricorso alla guerra come strumento di politica nazionale nelle loro reciproche relazioni. L’allora Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche non fu tra i primi Stati firmatari del trattato citato, tuttavia accettò il medesimo principio nei suoi rapporti con gli Stati frontalieri occidentali quando avviò e, successivamente, firmò il Protocollo di Litvinov nel 1929. L’URSS, in aggiunta, avviò la generosa Convenzione per la definizione di aggressione che venne firmata nella capitale del Regno Unito nel 1933 tra Mosca e gli Stati confinanti.
Come non menzionare nell’agosto del 1939 il Patto di non aggressione firmato tra Stalin e Hitler, con un Protocollo segreto che divideva i Paesi dell’Europa centro-orientale fra le due Potenze revisioniste nelle rispettive sfere di influenza. Dopo seguirono aggressioni basate proprio sul citato Protocollo, compreso uno dopo il quale l’URSS subì l’espulsione, nel 1939, dalla Società delle Nazioni, a causa dell’inizio delle ostilità sovietiche contro la Finlandia.
Ciò ha delineato una congettura strumentale problematica negli approcci sovietici al diritto internazionale dell’epoca. Il Cremlino ha solennemente promesso una cosa nei trattati con i Paesi dirimpettai per poi fare il contrario quando la sua comprensione della realpolitik lo richiedeva. Attorno agli anni trenta del secolo scorso, l’equipe di studiosi internazionali dell’URSS sottolinearono in modo chiaro che il governo moscovita nella sua politica estera era nel diritto di fare qualsiasi cosa che potesse favorire gli interessi della classe proletaria, per questo i trattati venivano considerati non sacrosanti ovvero non era necessario attenersi al principio pacta sunt servanda. Formalmente, pertanto, vi era un’intesa comune fra gli Stati capitalisti e l’URSS attorno alla questione che l’aggressione doveva essere non solo ripudiata, ma anche condannata e vietata. Nel contempo, le autorità di Mosca indicava qualcos’altro con il diritto internale e i trattati in quanto tali, nel senso che erano considerati, per prima cosa, un mezzo di politica estera e uno strumento di propaganda interna, anziché un insieme autonomo di regole che vincolano la politica estera sovietica.
Uno dei fattori che pongono in chiaro la condotta del Cremlino in Ucraina dal 2014 sta nella ragione che negli anni quarantaquattro e quarantacinque del XX secolo l’URSS ricevette un rispristino geopolitico da parte dell’Occidente come conseguenza del suo essere indispensabile nello sforzo del conflitto armato contro le Potenze dell’Asse. Durante il processo di Norimberga, l’attacco delle truppe naziste contro la sovranità e l’integrità territoriale della Polonia, avvenuto il 1° settembre del 1939, fu inquadrato come un vero e proprio crimine contro la pace. Tuttavia, l’URSS continuò a caratterizzare la loro occupazione ostile militare nel territorio polacco orientale il 17 settembre 1939 in poi come liberazione. La questione sta nella ragione che Mosca sia riuscita a farla franca con questo approccio. Questa potrebbe essere la lezione che il Cremlino abbia appreso, che ha ripercussioni nella nostra epoca e per Putin, in fondo, è così che opera il diritto internazionale, scritto nero su bianco dai vincitori.
Dopo il secondo conflitto mondiale, si decise di adottare la Carta delle Nazioni Unite per salvaguardare le future generazioni dal flagello della guerra, in cui è stato evocato una norma ormai divenuta quasi imperativa e consuetudinaria (ci si riferisce all’articolo2, paragrafo 4) nella quale si evince che «i Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite», disposizione che è stata violata da Mosca contro l’Ucraina.
L’illegalità dell’annessione è stata un corollario logico ed inevitabile del ricorso e impiego dell’azione coercitiva militare, nonostante il suo divieto evocato dal diritto internazionale. Già gli Stati Uniti formulavano la dottrina Stimson in base al quale non sarebbero stati riconosciuti mutamenti territoriali prodotti dalle violazioni del Patto Briand-Kellog, ossia il non riconoscimento delle situazioni di fatto stabilite in violazione del diritto internazionale, come ad esempio la nullità dell’accordo di Monaco del 1938 o dell’annessione dei Paesi baltici da parte di Mosca nel 1940 et alia. Questo approccio, successivamente, divenne ampiamente conosciuto e adoperato come dottrina del non riconoscimento, un corollario dell’divieto di aggressione e del ricorso allo strumento militare nel diritto internazionale. Inoltre, tenendo in considerazione il tema delle conseguenze dell’illegalità, le norme del Progetto di articoli sulla responsabilità dello stato della commissione del diritto internazionale, adottati nel 2001 dall’Assemblea Generale onusiana, introducono il concetto di gravi violazioni «da parte dello Stato di un obbligo derivante da una norma imperativa del diritto internazionale generale (articolo 40) » ed evoca che «nessuno Stato riconoscerà come legittima una situazione creata attraverso una violazione grave, né presterà aiuto o assistenza nel mantenere tale situazione (articolo 41, paragrafo 2) », quest’ultimo riflette il diritto internazionale consuetudinario.
Tuttavia, l’illegalità dell’annuncio dell’annessione della Russia al Cremlino diviene abbastanza chiaro anche nel caso in cui si prendano in considerazione trattati e accordi particolari circa le frontiere ucraine. Nel memorandum di Budapest del 1994, i cui firmatari furono le autorità di Kiev, di Mosca, di Londra e di Washington, che avevano asserito all’Ucraina il loro impegno a rispettare la sovranità, l’indipendenza e i confini esistenti dello Stato ucraino, affermando inoltre l’indipendenza politica ucraina. Nel gennaio del 2003, ancora, Mosca e Kiev conclusero un trattato di confine in cui la Federazione russa riconosceva le frontiere post-sovietiche ucraine, comprese quelle della Crimea e del Donbass, come lembi territoriali appartenenti all’Ucraina. Tale trattato porta la firma del presidente Vladimir Putin ed è stato debitamente ratificato dai rispettivi parlamenti di entrambi i Paesi. Dunque, la condotta illecita di Mosca di aver violato le frontiere ucraine con l’aggressione militare sta a significare che è stato abbandonato l’approccio russo adottato coerentemente sino al 2014.
Non può, d’altronde, sfuggire l’impressione che il Cremlino abbia, almeno pro forma, tentato di dare uno stupore che l’incorporazione o annessione dei suddetti territori possa essere ritenuta del tutto legittimo, secondo il diritto internazionale. È stato seguito, in linea di principio, l’identico approccio dell’annessione della Crimea. In primis, il governo di Mosca ha riconosciuto l’indipendenza del rispettivo territorio e, in seguito, lo ha annesso celermente. L’atto giuridico, ad esempio, emesso dal presidente Vladimir Putin, il 29 settembre 2022, che riconosce la sovranità e l’indipendenza dello Stato dell’oblast di Kherson si riferisce ai principi e alle disposizioni del diritto internazionale generalmente riconosciute, in particolar modo al principio della parità di diritti e autodeterminazione dei popoli. Dal punto di vista storico, già con l’annessione non lecita dei tre Stati baltici estone, lettone e lituano l’URSS ha cercato di creare un’apparenza di elezioni e, dunque, una sorta di legittimità democratica, poiché tutti questi atti siano avvenuti dopo la minaccia dell’azione coercitiva di forza e le elezioni erano solo farse. Persino dopo il 1945, il predominio sovietico sull’Europa orientale era, di regola, determinato da camuffate elezioni, sebbene Stalin avesse garantito a Churchill e a Roosevelt che il diritto di un popolo ad autodeterminarsi sarebbe stato preso in considerazione.
Nel discorso di Putin del 30 settembre scorso, si può evincere che il governo russo guarda la guerra in Ucraina come un conflitto per procura sul presente e futuro dell’ordine mondiale. L’inquilino del Cremlino ha motivato i referendum seguendo la linea e il rispetto della Carta onusiana con riferimento all’articolo 1, paragrafo 2, che enuncia che uno dei fini dell’organizzazione internazionale onusiana è quello di «sviluppare fra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’autodecisione dei popoli». Ergo, anche se la Russia sorta dalle ceneri dell’URSS abbia criticato il diritto dei popoli ad autodeterminarsi come motivo si secessione, ora vi si riferisce formalmente giustificando l’annuncio fatto da Putin di annessioni ai danni dell’Ucraina. Alla fine, si nota che l’approccio della Federazione russa guidata da Putin viene caratterizzato da una sorta di decisionismo schmittiano.
Nel suo ultimo discorso rivolto del 30 settembre, il presidente russo ha persino criticato la civiltà occidentale, sostenendo, inter alia, che esso vuole statuire chi può esercitare l’autodeterminazione e chi no, aggiungendo anche che gran parte degli Stati ha accettato di divenire vassalli degli Stati Uniti e dell’occidente neocoloniale, ma che la sua Russia non soccomberà mai a un ruolo così umiliante.
In conclusione, bisogna aggiungere che il nucleo dell’ordine internazionale, che si poggia su delle regole, non può essere certamente che lo stesso diritto internazionale a cui tutti gli Stati, compresa la stessa Russia, devono rispettare e adempiere senza se e senza ma. Agli inizia degli anni novanta del secolo scorso e agli inizi di questo nuovo secolo, la Russia aveva già accettato il rispetto delle frontiere con l’Ucraina. Sebbene ora stia cercando di mutare tali demarcazioni confinanti attraverso il mezzo dell’azione coercitiva militare e mediante le annessioni unilaterali, ciò costituisce una sfida non solo per l’Ucraina, soggetto di diritto internazionale, Stato sovrano, ma anche per l’intera struttura dell’ordinamento giuridico internazionale in quanto tale.