Visita a sorpresa ieri a Kabul del segretario di Stato americano Antony Blinken, il giorno dopo l’annuncio di Joe Biden del ritiro delle truppe Usa dall’Afghanistan entro l’11 settembre. Una decisione inevitabile per il presidente americano, ma probabilmente presa non senza qualche mal di pancia all’interno della sua amministrazione. Secondo alcune fonti vicine alla Casa Bianca, non tutti i consiglieri e i piu’ stretti collaboratori di Biden sarebbero stati d’accordo, col parere contrario espresso da una parte dei vertici del Pentagono e del Dipartimento di stato. Tra i piu’ decisi ad opporsi all’ordine del ritiro, riporta la Cnn, sarebbero stati il capo di stato maggiore Mark Milley e il leader dello Us Central Command Frank McKenzie.
I talebani intanto cantano vittoria: “Abbiamo sconfitto l’America“, esultano, mentre Blinken ha incontrato il presidente afghano Ashraf Ghani e alti funzionari statunitensi a Kabul per rassicurarli sul futuro. Ma anche per ribadire la necessita’ di porre fine a quella che e’ tornato a definire “una guerra eterna”, iniziata dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001.
“Volevo dimostrare con la mia visita che l’impegno degli Stati Uniti nei confronti della Repubblica islamica e del popolo afghano continua“, ha affermato quindi il capo della diplomazia Usa: “Cambia il tipo di partnership, ma l’alleanza durera’ nel tempo“.
Intanto l’Unione europea prende atto delle decisioni degli Stati Uniti e della Nato di ritirare le loro truppe dall’Afghanistan a partire dal primo maggio“: “Alla luce di queste decisioni – ha detto Nabila Massrali, portavoce del servizio di azione esterna della Ue – sara’ fondamentale un impegno fermo e costruttivo nei negoziati di pace da tutte le parti. E l’Ue continuera’ a lavorare con i partner internazionali per incoraggiare una soluzione negoziata politicamente attraverso continui colloqui diretti tra le parti e proseguira’ negli appelli a porre fine alla violenza”.
Il capo della Farnesina, Luigi Di Maio ha spiegato come i ministeri degli Esteri, della Difesa e lo Stato Maggiore, congiuntamente a Palazzo Chigi, elaboreranno una road map per il ritiro delle truppe italiane.
Le motivazioni del ritiro spiegate dal generale Pasquale Preziosa
Un paio di anni fa il generale Pasquale PREZIOSA, già capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare fino al 2016 ed oggi presidente dell’Osservatorio sulla Sicurezza di Eurispes, aveva ampiamente studiato e analizzato, e per certi versi predetto, il ritiro degli Stati Uniti dal territorio afghano.
All’epoca secondo alcuni analisti americani la Sicurezza Nazionale dell’Afghanistan era peggiorata da quando la NATO, nel 2014, aveva ridotto la sua presenza sul terreno e non aveva consentito alle forze di sicurezza afgane di raggiungere i livelli di addestramento previsti dai piani USA., il generale PREZIOSA riteneva al riguardo: “Non è così, questo è solo un modo poco “sopraffine” per allontanare la responsabilità da chi ne detiene l’autorità”.
Le ragioni, quelle vere, vanno ricercate attraverso l’analisi storica di tutti gli eventi e le decisioni strategiche che hanno interessato quel martoriato Paese, precisava il generale.
Il livello di Sicurezza Nazionale dell’Afghanistan non è mai dipeso dai livelli di presenza della NATO in quel teatro sia perché la componente militare NATO è stata sempre, di dimensioni di molto ridotte, sia in quanto le scelte strategiche e i punti di caduta di tale strategia sono state elaborate dagli USA e illustrate agli alleati per la condivisione delle parti sostenibili sotto il profilo politico, economico e legale.
Trump in quel periodo aveva già affermato, in un discorso, che l’Afghanistan doveva prendere più responsabilità per la guerra e per il suo futuro.
Nello stesso discorso il presidente americano aveva anche sottolineato che l’India sarebbe stato il Paese partner degli USA nell’Asia del Sud.
I discorsi ufficiali vanno epurati dalla consueta retorica per esaminare gli aspetti salienti geopolitici d’interesse, evidenziava il generale Pasquale PREZIOSA.
Il primo aspetto che emergeva dall’esame del discorso del presidente è l’indicazione di chi deve essere responsabile della conflittualità in Afghanistan e non della risoluzione della conflittualità, lasciando così intravedere un probabile allontanamento del supporto militare della coalizione all’attuale governo di quel Paese.
Con queste premesse, sono continuati i colloqui di Doha con i Talebani, dove lo Special Assistent per l’Asia Meridionale, l’ambasciatore statunitense Zalmay Khalilzad, stava negoziando le condizioni per il passaggio del Paese nelle mani talebane.
Le negoziazioni hanno previsto i seguenti punti: attenersi alla Costituzione vigente nel Paese, non concedere basi di addestramento per terroristi e combattere le formazioni ISIS presenti.
Ricordiamo che nel 2011 vi erano 100.000 soldati USA, 10.000 britannici e 30.000 soldati NATO oltre ai contractor americani, tali forze non furono sufficienti, per sconfiggere i Talebani e Al Qaeda.
Negli anni successivi, con le truppe occidentali sul terreno ridotte al lumicino, la possibilità che fossero le forze afghane da noi addestrate a sconfiggere i Talebani era pura fantasia, anzi c’era da chiedersi con quale spirito i soldati afghani avrebbero potuto combattere i Talebani se, nel breve periodo, gli americani e alleati avrebbero poi lasciato l’Afghanistan nelle loro mani, ”Afghanistan under the Taliban had been a brutal theocracy” aveva affermato il gen. Tommy Franks (Centcom Commander fino al 2003).
Ancora una volta il piano strategico per l’Afghanistan era nelle mani USA e non nelle decisioni della NATO, così come è naturale che sia.
20 anni in Afghanistan
Esaminiamo ora, qualche data importante di questi 20 anni trascorsi dalla coalizione in Afghanistan, per verificare l’esistenza di falle strategiche nella conduzione delle operazioni.
Quando le truppe USA sono intervenute nel 2001 in Afghanistan, vi erano i Talebani che governavano il Paese, che avevano dato ospitalità al terrorismo di Al Qaeda di Osama bin Laden e l’Afghanistan era il primo produttore mondiale di Marihuana.
Gli obiettivi all’epoca stabiliti furono: eliminazione sia dei Talebani sia dell’organizzazione di Al Qaeda, eradicare le coltivazioni di oppio, liberare le donne, rinnovare il paese in senso democratico, in modo tale che non potesse più costituire pericolo per l’umanità. Gli USA proclamarono, così, la “Global war on terrorism”.
I livelli di ambizione stabiliti per l’Afghanistan, sull’onda dell’emozione dell’11 Settembre furono molto elevati, come pure gli stanziamenti di bilancio per i finanziamenti sia del Paese sia delle operazioni militari.
Anche la partecipazione delle singole nazioni per il supporto alle operazioni USA raggiunse il considerevole numero di 53 Paesi, e la NATO per la prima volta nella sua storia, in seguito all’atto terroristico dell’11 Settembre, invocò il 2 Ott. 2001 l’Articolo V del Patto Atlantico, che statuisce che un attacco armato contro uno o più membri dell’Alleanza deve essere considerato come un attacco contro tutti i paesi dell’Alleanza stessa.
Nel 2003 gli USA ridussero, di molto, le truppe in Afghanistan per poter invadere l’Irak, senza attendere il completamento dell’opera iniziata in Afghanistan: Bush già nel 2002 parlò di asse del male e Stati canaglia, quali Irak, Iran e Corea del Nord.
L’apertura di due fronti di guerra, purtroppo con le stesse quantità di forze USA presenti in quell’area operativa, comportò la necessità di alimentare l’Irak non con nuove forze militari (170.000 unità), ma a scapito delle unità combattenti in Afghanistan.
L’assenza di sufficienti forze militari sul terreno afghano, già dal 2003, consentì ai talebani di risorgere e di iniziare la riconquista graduale del territorio perduto.
I pochi rinforzi USA poi inviati dal 2009, dopo 6 anni di assenza, poco hanno potuto fare per conquistare quanto riguadagnato dai talebani,
I nuovi rinforzi del 2011, conseguenti al nuovo cambio di focus USA dall’Iraq all’Afghanistan, con ritiro delle truppe dall’Iraq e riposizionamento in Afghanistan, sono risultati inefficaci per eliminare tutte le metastasi terroristiche e criminali sviluppatesi a partire dal 2003 con il primo cambio di focus operativo(strabismo strategico) USA dall’Afghanistan all’Iraq.
La situazione terroristica si è ulteriormente complicata col ritiro delle truppe USA dall’IRAQ, che ha visto la gemmazione di una ulteriore organizzazione terroristica: l’ISIS che ha interessato anche l’Afghanistan, aggravando il già critico livello di sicurezza del Paese.
Pertanto, i problemi attuali di insicurezza dell’Afghanistan sono solo la conseguenza delle decisioni prese nel lontano 2003 dagli USA, che decisero la rilevante riduzione delle forze militari sul terreno, che non seppero consolidare e stabilizzare i risultati raggiunti con la vittoria raggiunta con l’invasione iniziata il 7 ottobre 2001.
L’America e i suoi interessi verso l’India
Non ci sono molti approfondimenti strategici da fare su questo argomento: la scelta dell’India da parte USA, automaticamente fa decadere il supporto strategico e operativo del Pakistan per le operazioni in Afghanistan, spinge il Pakistan nell’orbita cinese, russa, e per certi versi anche iraniana.
Secondo l’amministrazione Trump l’Afghanistan e il terrorismo, ridimensionati nelle loro aspirazioni rivoluzionarie, avrebbero avuto una minore priorità nel nuovo ciclo geopolitico, rispetto all’elemento nuovo che era all’orizzonte ma ora si è consolidato, la Cina.
Gli USA e di conseguenza la Cina, hanno già individuato i nuovi paesi alleati per i prossimi confronti geostrategici.
Stiamo infatti assistendo ai giorni nostri il consolidamento di questo confronto tra l’ulteriore espansionismo economico e commerciale cinese e la risposta USA, legata sia alla “Trade War with the world”, sia alla politica di contenimento dell’espansionismo cinese.
Questo nuovo confronto nasce nell’era digitale ed è caratterizzato dal nuovo dominio nella dimensione cyber con il “commercio di informazioni”.
Secondo alcuni studiosi, il dominio del cyberspazio è il fattore chiave per acquisire potere.
L’Afghanistan di oggi, quindi, è immerso in un quadro geopolitico differente rispetto a quello di 20 anni fa per tre ordini di ragioni: la fine del ciclo terroristico legato alle religioni, l’interesse della Cina alla stabilizzazione dell’Afghanistan per convenienza nazionale e la raggiunta “dominance” degli USA nel campo energetico grazie alle grandi riserve di “shale oil” individuate sul proprio territorio.
David Rapoport, nei suoi studi sulle ondate terroristiche che hanno caratterizzato la nostra storia (quattro), ha previsto il termine o meglio l’attenuazione di questo ciclo, iniziato nel 1979, nel non lontano 2025, con la nascita di un nuovo ciclo di diversa tipologia e non in Afghanistan.
La Cina affermatasi come grande potenza, ha interesse, oggi più di ieri, alla stabilizzazione dell’Afghanistan per ragioni economiche, strategiche e di sicurezza interna (Limes); nello Xinjiang “è in corso una dura campagna antiterrorismo per arginare le frange estremiste di etnia uigura, minoranza musulmana e turcofona.”
Inoltre, la tutela dei progetti infrastrutturali lungo la rotta della nuova via della seta, richiede un Afghanistan più stabile.
Infine, l’Afghanistan pur non avendo petrolio, è importante per il trasporto del petrolio del Mar Caspio verso i mari caldi pakistani attraverso il passo di montagna obbligato del Khyber, parte della vecchia via della seta, punto di passaggio tra l’Asia Centrale e Meridionale: l’interesse USA per il passaggio delle risorse energetiche attraverso l’Afghanistan si è affievolito per il raggiungimento dello status di “dominance” nel settore energetico grazie allo “shale oil and gas” scoperto nel proprio territorio.
Gli USA quindi, hanno valutato, non conveniente rimanere nell’area afghana, che oggi presenta un rischio terroristico più basso rispetto al 2001, in un quadro di priorizzazione delle risorse (Resource Triangle).
Sotto il profilo geostrategico, ”Pechino vuole stringere a sé Kabul per erodere la sfera d’influenza dell’India” (Limes).
L’Afghanistan, col ritiro degli USA, si prepara ad entrare in una possibile orbita cinese col supporto del Pakistan, acerrima nemica dell’India che a sua volta non è buona amica della Cina.
Con buona pace degli analisti USA, la NATO ha operato come alleato di valore al fianco degli USA sopportando costi e pagando con vite umane il proprio contributo, come pure l’Italia (55 deceduti), senza però alcuna influenza sulle decisioni geostrategiche che sono state operate in autonomia dagli USA e senza grandi onori riconosciuti. Qualche volta nei conti dei costi di partecipazione all’Alleanza, aggiungiamo una riga in più, per considerare quanto fatto e pagato nei 20 anni dagli Alleati e dall’Italia come contributo nazionale per la nostra sicurezza collettiva ed evitiamo di addossare ad altri le proprie responsabilità.