(di Maurizio Giannotti) Lo sconquasso politico istituzionale che stiamo subendo impone serie e profonde riflessioni. Il 4 marzo scorso siamo andati a votare e dalle urne è uscita vincitrice una coalizione e al secondo posto un movimento politico. Dopo estenuanti consultazioni, contro ogni logica, la formazione del nuovo governo non è stata affidata alla coalizione vincente ma ad un ibrido costituito dal primo partito della coalizione vincente e dal secondo arrivato in quanto primo partito nazionale per numero di voti, due partiti che durante la campagna elettorale si erano fortemente osteggiati. Nel nome dell’interesse nazionale, la formazione ibrida, dopo ripetuti estenuanti tavoli di concertazione, è riuscita ad indicare un Primo Ministro credibile ed un contratto “più volte rivisitato, ma approvato”.
Straordinariamente, per motivi tutti da chiarire, abbiamo respinto la proposta del Primo Ministro in pectore; dico noi, perché chi ha preso questa decisione è il rappresentante di tutti noi: il Capo dello Stato.
Le giustificazioni per questa avventata decisione così drastica la conosciamo, il fior fiore dei media e degli analisti politici ci hanno spiegato che ha prevalso il timore di incappare nelle severe censure dell’UE, del FMI , dei nostri partners del centro-nord europa e tante altre pressioni di origine estera e sovranazionale.
Per comprendere i timori “istituzionali” occorre davvero cercare di analizzare quello che da anni avviene a danno del nostro sistema produttivo.
Probabilmente l’analisi fatta dall’amico Alessandro Miele (un manager di alto livello), che ho avuto il piacere di ascoltare è la più vicina alla realtà dei nostri giorni.
Viene, quindi, evidenziato come spogliare la Grecia sia stato un gioco da ragazzi: un paese con pochi aeroporti, qualche isola, industrie zero, poco territorio, risparmi privati risibili, demanio relativamente interessante e con un PIL inferiore alla sola prov. di Treviso.
Per l’Italia le cose sono ben diverse e per ripetere l’operazione Grecia è necessario pianificare tutta una serie di azioni che si snodano nel tempo, anche molto lontano.
Il nostro è un capitale assolutamente enorme, siamo secondi al mondo in quanto a risparmio privato, primi come abitazioni di proprietà, abbiamo terre di valore assoluto e coste meravigliose.
Eravamo la quinta potenza industriale al mondo prima dell’euro, oggi siamo scesi all’ottavo posto, grazie anche e soprattutto alla lenta spoliazione del nostro apparato produttivo.
Il Made in Italy è ancora oggi il marchio numero uno al mondo, davanti a Coca Cola, ma giorno dopo giorno imprese italiane grandi e piccole si trasferiscono in paesi più “accoglienti”. Ad esempio, tante le piccole aziende dal know-how pressoché unico che vengono attratte dalle proposte indecenti di paesi come la Svizzera, l’Austria, etc.. etc…
Sia ben chiaro, questi paesi fanno il loro dovere, è il nostro paese, sono i nostri esecutivi che sbagliano o fanno finta di non vedere perché ciò richiederebbe impegno, oppure per qualche sinistro interesse.
Non sono poche le grandi aziende titolari di marchi storici che si sono trasferite all’estero per tempo, salvando capre e cavoli in paesi sicuri e con un blando regime fiscale.
L’Italia ha una biodiversità superiore alla somma di tutti gli altri paese UE e il nostro capitale artistico monumentale è pari al 75% del patrimonio mondiale.
Francia e Germania, qualche fondo americano, cinese e arabo hanno fatto la spesa all’interno dei confini nazionali approfittando della promozione “paghi uno e prendi quattro”; al riguardo, sarebbe utile conoscere gli artefici di questo marketing scellerato.
Tutto il lusso e la grande distribuzione sono passati ai francesi insieme ai pozzi libici passati da ENI a Total, con ENI diventata a maggioranza americana.
Anche il sistema bancario è passato ai francesi insieme all’alimentare e i tedeschi si sono presi la meccanica ed il cemento.
Gli indiani ci hanno fatto fuori tutto l’acciaio e continuano a farlo, i cinesi si sono presi quote di Terna e tutta Pirelli Agricoltura.
In assoluta allegria e senza controllo alcune se ne sono andate TIM, TELECOM, GIUGIARO, PININ FARINA, PERNIGOTTI, BUITONI, ALGIDA, GUCCI, VALENTINO, LORO PIANA, AGNESI, DUCATI, MAGNETI MARELLI, ITALCIMENTI, PARMALAT, GALBANI, LOCATELLI, INVERNIZZI, FERRETTI YACHT, KRIZIA, BULGARI, POMELLATO, BRIONI, VALENTINO, FERRE’, LA RINASCENTE, POLTRONA FRAU, EDISON, SARAS, WIND, ANSALDO FERROVIARIA, ALITALIA, TIBB TECNOMASIO ITALIANA BROWN BOVERI, MERLONI, CARTIERE DI FABRIANO, etc.. etc… E’ bene fermarsi altrimenti ci viene il magone, un forte scoramento soprattutto pensando che qualcuno, pseudo imprenditore o grand commis, da queste operazioni ha tratto dei vantaggi iperbolici, del tutto legittimi o almeno credo e spero, sia ben chiaro.
Comunque i nostri affezionati “clienti” sono sempre qui, come afferma Miele, perchè non hanno finito: ci sono ancora le case, le cose degli italiani e i loro risparmi che ammontano a circa 8.000 miliardi di Euro.
E, non ultima, c’è anche la nostra riserva aurea che, escludendo quella del FMI , è la terza al mondo dopo USA e Germania . Abbiamo circa 2452 tonnellate del prezioso metallo a fronte di un debito pubblico di circa 2.300 mld di Euro mentre gli USA hanno 8134 tonnellate a fronte di un debito pubblico superiore ai 18.000 mld di euro con un rapporto del tutto favorevole per noi.
Anche la riserva aurea ha il suo bel peso e, come già accaduto, quasi certamente non sono pochi quelli che in questo momento in UE si augurano che l’Italia usi le sue riserve auree come collaterale, un’operazione che gioverebbe a tanti.
Il nostro rappresentante, il Capo dello Stato, forse inconsapevolmente o mal consigliato, ha chiamato un tecnico per formare il nuovo Governo intimandogli di procedere sbarrando di fatto la strada a chi forse tentava di mettere un freno a questa spoliazione.
In pratica, questi clienti che altro non sono che i fondi di investimento, i mercati, che come raccolgono i soldi delle mafie, tutte, grandi e piccole, dei traffici di droga, di umani, di truffe internazionali, di salvataggi bancari, del “nero” delle grandi multinazionali, siano esse del commercio, dei telefonini, della cocaina o delle armi, questi clienti hanno bisogno di investire ancora e quindi non hanno finito.
Ora tocca alla poche imprese rimaste, anche alle aziende artigiane, ai fondi pensione, ai conti privati, agli immobili, in breve ora tocca a noi mediare o arretrare anche se di fronte ad un branco di lupi così famelici serve a ben poco.
Se l’Europa si presta a queste nefandezze è veramente difficile riconoscersi; l’Europa è un’altra cosa è quella della Conferenza di Londra del 1953 quando furono condonati alla Germania i debiti di due guerre mondiali e tra i primi paesi a non esigere il conto ci fu l’Italia di De Gasperi, padre fondatore dell’Europa. Leggere l’articolo al link http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-10-14/la-merkel-ha-dimenticato-quando-l-europa-dimezzo-debiti-guerra-germania-151827.shtml?uuid=ABkKN62B.
Nel 2014 si contavano esattamente 2.451,80 tonnellate d’oronelle casse della Banca d’Italia, quantità che pone il nostro paese, come detto, nelle primissime posizioni fra i detentori d’oro a livello mondiale.
Alberto Angela nel 2010, autore dell’unica testimonianza video dei forzieri di Palazzo Koch a Roma:
<< …dalle riserve auree dipende la capacità dell’Italia di fornire garanzie ai propri partner commerciali e di richiedere prestiti impegnandole nei momenti di difficoltà. L’oro d’Italia rappresenta simbolicamente la ricchezza del Paese: sono i nostri gioielli di famiglia. >>
A comporre le nostre riserve, un insieme di lingotti d’oro puro – detti verghe – di varie forme e pesi (95.493 pezzi, dai 4,2 ai 19,7 chilogrammi e contenuto di oro > 99%) e di monete d’oro (871.000 pezzi) provenienti da varie parti del mondo e risalenti ad epoche diverse. Nel video girato da Angela, ad esempio, si intravvedono lingotti provenienti da Inghilterra, Russia, Stati Uniti e ne viene preso in esame uno addirittura risalente alla Seconda Guerra Mondiale: su di esso, una svastica nazista.
Come avvenuto per la maggioranza delle banche centrali europee, il più delle riserve auree italiane, è stato accumulato tra la fine degli anni ’50 ed i ’60 sotto il sistema di Bretton Woods: l’incremento di produttività, l’inflazione del biglietto verde e la completa convertibilità del dollaro in oro in ambito internazionale, invogliò e permise alle emergenti economie europee, guidate dalla Francia di De Gaulle, di scambiare ingenti quantità d’oro con la FED.
Per frenare l’emorragia di oro dalle casse statunitensi, nel 1971 Nixon decretò la fine di Bretton Woods inaugurando l’epoca delle valute fiat a corso forzoso i cui cambi sarebbero stati determinati, come avviene ancora oggi, dai soli partecipanti al Forex.
Secondo quanto riportato da Angela, poi confermato nella documentazione del 2014, l’oro italiano non è collocato interamente a Roma, nelle casseforti della sede della Banca d’Italia (Palazzo Koch).
I rimanenti lingotti che compongono le nostre riserve auree sono dislocati in altri tre luoghi, posti al di fuori del territorio nazionale italiano: Berna, Londra e New York.
Nella sua dettagliata relazione, la Banca d’Italia ha rivelato che solo il 48% delle riserve auree (1.195 tonnellate) sono stipate nella Sagrestia Oro di Palazzo Koch, poiché l’altro 52% (1.254 tonnellate) è immagazzinato presso i depositi di Federal Reserve, Bank of England e Banca per i Regolamenti Internazionali.
La Banca d’Italia, però, non specifica l’esatta ripartizione dell’oro italiano fra i tre soggetti esteri: prendendo per buone alcune congetture sparse per la rete, la stragrande maggioranza dei lingotti detenuti all’estero si trovano nella sede della FED (si parla addirittura di 1.200 tonnellate), con sole 7-12 tonnellate conservate nella Banca d’Inghilterra e le rimanenti 35-47 in quella di Berna.
Nell’alimentare le voci che vi siano ben 1.200 tonnellate d’oro italiano in quel di New York, c’è un precedente storico: negli anni ’70 il Governo richiese alla Germania un prestito che, su richiesta tedesca, venne garantito da un’equivalente somma di oro: la Banca d’Italia ordinò che ben 543 tonnellate d’oro italico custodite presso la FED, venissero impegnate a garanzia di restituzione del prestito.
Il debito venne ripagato in toto e le riserve disimpegnate; da allora, purtroppo, dell’oro custodito oltreoceano non è più stata data notizia certa.
Di certo c’è, però, che una parte delle 1.195 tonnellate custodite a Roma non sono nelle disponibilità della Banca d’Italia: ai sensi dell’art. 30 dello Statuto del Sistema Europeo delle Banche Centrali di cui la Banca d’Italia fa parte, 141 tonnellate di oro custodite nella Sagrestia di Palazzo Koch sono virtualmente bloccate.
Questo perché la Banca Centrale Europea ha sì delle proprie riserve monetarie, ma queste sono state composte a partire dalle risorse messe a disposizione dai vari paesi aderenti all’Unione Monetaria: il 15% di questi contributi dovuti da ogni paese utilizzatore dell’euro, secondo il già citato statuto, dovevano essere corrisposti in oro: per l’Italia quel 15% corrispondeva esattamente a 141 tonnellate.
Inoltre, nonostante la Banca d’Italia abbia ormai da anni una sede stabile in quel di Manhattan, l’istituto non ha mai ritenuto opportuno verificare con mano l’effettiva presenza e la situazione giuridica dell’oro custodito su suolo statunitense: la banca centrale italiana, difatti, si affida a degli auditing condotti da revisori esterni che, pare, non abbiano accesso alle riserve detenute oltre confine.
Sono infatti le banche centrali estere presso cui l’oro italiano è detenuto, ad inviare dei report di notifica a Roma con cadenza annuale.
Eh sì, oltre alla quantità e al luogo geografico in cui si trova l’oro, c’è una terza domanda da porsi, forse la più importante di tutte:
Qual è la situazione giuridica dell’oro italiano?
Viene dato in leasing? Viene utilizzato come collaterale per prestiti istituzionali? In che percentuale? Ebbene, non c’è molto da riportare a questo proposito, perché la risposta pervenuta a Ronan Manly, operatore professionale in oro di Singapore, direttamente dagli uffici di Palazzo Koch non lascia spazio ad incomprensioni:
<< La presente è per informarla che, sfortunatamente, Banca d’Italia non fornirà informazioni aggiuntive [riguardo la situazione giuridica delle riserve estere] oltre a quelle già rilasciate sul suo sito istituzionale. >>(Press and External Relations Division, Bank of Italy)
Se la ricerca di informazioni riguardo possibili prestiti o leasing dell’oro italiano è ostacolata dalla banca stessa, non ci rimane altro che andare dritti al cuore del problema: la privatizzazione dell’Istituto.
Al contrario di quanto avviene per la maggioranza delle Banche centrali, infatti, la Banca d’Italia è un ente privato di diritto pubblico.
Nel 2014 il Governo approvò il decreto IMU-Bankitalia, norma con cui la privatizzazione e la ricapitalizzazione della banca centrale italiana divenne realtà.
A testimoniarlo, il video dei tre senatori del M5S che ebbero l’opportunità di visitare le riserve auree di Roma nello stesso anno e che, a conclusione del video, toccarono proprio quest’argomento.
Non voglio continuare a tenerti sulle spine, perciò la faccio breve: dire che l’oro di Palazzo Koch è oro italiano (per inciso, del popolo italiano) è un puro eufemismo.
Quelle 2.450 tonnellate, o quanto in realtà esse siano, non sono di proprietà dello Stato (e di riflesso, di noi cittadini) né degli azionisti privati della Banca d’Italia che sulle riserve non possono vantare alcun diritto.
Al contrario di quanto riportato negli statuti delle altre banche centrali europee, le quali detengono e gestiscono le riserve auree per conto dei loro governi, il sito della banca centrale italiana recita (senza dare troppe spiegazioni):
<< La proprietà delle riserve auree ufficiali è assegnata per legge alla Banca d’Italia >>
Esso è intoccabile ed inutilizzabile, a detta di quanto riportato dall’onorevole Vacciano uno dei senatori ammessi a visitare la Sagrestia Oro, e pertanto le ipotesi di vendita o di utilizzo a garanzia di prestiti pubblici sono semplici speculazioni inattuabili.
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