Le implicazioni religiose e politiche di una scelta controversa
di Antonio Adriano Giancane
La recente decisione del governo ucraino di vietare i contatti con il Patriarcato di Mosca rappresenta un nuovo capitolo nel conflitto che continua a lacerare i rapporti tra Ucraina e Russia. Questo provvedimento, che ha suscitato reazioni contrastanti sia in ambito nazionale che internazionale, non riguarda solo la sfera politica e militare, ma si estende anche a quella religiosa, con potenziali conseguenze di ampia portata.
La legge, approvata dal Parlamento ucraino il 20 agosto, vieta l’attività delle organizzazioni religiose che mantengono legami stretti con la Russia, aprendo la strada a una possibile messa al bando delle attività della Chiesa ortodossa ucraina legata al Patriarcato di Mosca. Secondo la normativa, le parrocchie avranno nove mesi di tempo per interrompere i loro rapporti con la Chiesa ortodossa russa. Questa mossa è stata giustificata dalle autorità di Kiev come una necessaria misura di sicurezza nazionale, poiché la Chiesa ortodossa legata a Mosca è vista come un’appendice del Cremlino, utilizzata per minare la causa ucraina e promuovere un’ideologia filorussa.
Il provvedimento ha suscitato preoccupazione anche ai vertici della Chiesa cattolica. In una presa di posizione forte e inequivocabile, Papa Francesco ha espresso il suo timore per le possibili ripercussioni che tale legge potrebbe avere sulla libertà religiosa in Ucraina. Durante l’Angelus domenicale, il Pontefice ha affermato di seguire “con dolore i combattimenti in Ucraina e nella Federazione Russa” e ha espresso preoccupazione “per la libertà di coloro che pregano” a seguito delle nuove normative approvate a Kiev. Il Papa ha ribadito che la preghiera non può mai essere considerata un atto nocivo e ha esortato affinché “nessuna Chiesa cristiana venga soppressa direttamente o indirettamente“. Con queste parole, Francesco ha sottolineato l’importanza di lasciare intatti gli spazi di culto, affinché chiunque possa pregare liberamente nella Chiesa che ritiene propria.
La risposta del Patriarcato di Mosca non si è fatta attendere. Il Patriarca Kirill, leader della Chiesa ortodossa russa, ha chiesto il supporto del Papa e di altri leader religiosi mondiali per difendere la Chiesa ortodossa ucraina. La mossa di Kiev è vista da Mosca come un attacco diretto alla libertà religiosa e un tentativo di cancellare l’influenza russa in Ucraina, in un contesto già estremamente teso e divisivo.
L’utilizzo della religione come strumento di conflitto politico, tuttavia, rischia di avere conseguenze devastanti. Le religioni, per loro natura, dovrebbero essere fonti di pace, comprensione e coesione sociale. Quando vengono trasformate in armi politiche, i loro principi fondamentali vengono distorti, alimentando divisioni ancora più profonde tra le popolazioni. In un contesto di guerra come quello ucraino, la strumentalizzazione della fede può intensificare l’odio e la violenza, rendendo ancora più difficile il percorso verso la riconciliazione.
È essenziale che in contesti di conflitto si rispetti la libertà religiosa e che le istituzioni religiose rimangano neutre rispetto alle dispute politiche. Le Chiese devono essere preservate come luoghi di dialogo e riconciliazione, non come arene di scontro. La sfida per l’Ucraina è trovare un equilibrio che consenta di garantire la sicurezza nazionale senza compromettere la libertà religiosa, evitando così di alimentare ulteriormente l’ostilità tra le comunità.
Mentre la situazione continua a evolversi, resta chiaro che la strada per una soluzione pacifica e duratura non può prescindere dal rispetto per le libertà fondamentali, inclusa quella di culto. La speranza è che, nonostante le tensioni, prevalga il dialogo e che le religioni possano tornare a svolgere il loro ruolo essenziale di ponti tra le persone, piuttosto che di muri che le dividono.
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