(Nicola Simonetti) Una speranza di soluzione del tremore ed altri sintomi viene dal Giappone. è lanciata, con una “prova” clinica. Il prof. Jun Takahashi e collaboratori hanno iniettato, a mezzo di un apparecchio specializzato immesso nel cranio attraverso una breccia di 12 millimetri di diametro, nel cervello di sette malati (volontari che saranno seguiti, passo dopo passo, fino al 2022), un numero di cellule neurologiche dopaminergiche (che producono dopamina), ottenute a partire da staminali attrezzate per lo scopo.
Prima di giungere al malato, la tecnica è stata saggiata (ricerca preclinica), con successo, nelle scimmie i cui movimenti erano stati alterati (come avviene in chi si ammala di Parkinson) con l’iniezione di apposita tossina (“veleno”).
Gli animali, così trattati, hanno dimostrato, dopo il trattamento, netto miglioramento dei movimenti del corpo. La motricità, penalizzata Parkinson-simile è stata quasi completamente recuperata.
L’annuncio è stato dato, correttamente, a mezzo della pubblicazione di procedura e risultati dettagliati sulla rivista scientifica “Nature (8/2017).
L’obiettivo dei ricercatori è di ottenere dalle staminali la generazione di nuovi neuroni che fabbrichino e mettano a disposizione la dopamina, sostanza che è venuta a mancare nei malati e la cui carenza è causa di malattia.
La malattia di Parkinson è legata alla morte dei neuroni cerebrali che producono il neurotrasmettitore dopamina, sostanza che fa da relais del messaggio nervoso fino alla zona del cervello che controlla e dà il via ai movimenti.
La perdita della dopamina genera tremori, rigidità, ed altre difficoltà motorie nel paziente che ne è colpito.
Il “miracolo” terapia con dopamina (levdopa) – dice il prof. Leonardo Lopiano, presidente Accademia LIMPE-DISMOV e Fodazione limpe per il Parkinson – ha vita breve e la “luna di miele” malato-terapia si annuvola/termina. Tra l’altro, si sta approntando la formulazione per iniezione sottocute.
“Indubbiamente un limite – dice M. Takahashi – in funzione della perdita progressiva dei neuroni che la producono; il nostro trapianto delle cellule potrebbe, anche, ovviare al grave inconveniente”.
In Italia, 250mila persone, di cui 10% under 40-50 anni (maschi il doppio delle donne) sono portatori del Parkinson (ha preso il nome dall’Autore che l’ha descritta 200 anni fa), malattia che crea disabilità facile e coinvolge negativamente tutta la famiglia e,specie di chi, di loro, si prende cura del malato e, necessariamente, è impegnato a tempo pieno a scapito di salute, lavoro e vita privata
I caregiver (soprattutto donne: il 76,4%) sono impegnati in media 10 ore al giorno, nel 30% dei casi senza nessun aiuto. È quanto emerge da una ricerca realizzata dal Censis, con il contributo non condizionato di AbbVie, sul ruolo del caregiver nel Parkinson avanzato, che fa luce sugli oneri assistenziali di cui i familiari si fanno carico e sull’impatto che i compiti di cura hanno sulla loro condizione esistenziale.
L’80,8% dei pazienti ha bisogno di aiuto per ricordarsi di prendere i farmaci negli orari giusti. Il 42,4% dei pazienti non è autosufficiente nel farsi la doccia o il bagno, il 36,5% a occuparsi dell’igiene personale, il 37,9% a vestirsi, il 35% ha problemi di incontinenza, il 29,1% ha difficoltà a muoversi, il 21,7% non riesce a mangiare da solo.
Un impegno, per chi assiste, che occupa l’intera giornata: in media 8,8 ore per le mansioni di assistenza diretta e 10,2 ore per la sorveglianza (dati che crescono al crescere della gravità della malattia). Il 30% dei caregiver non riceve alcun aiuto nelle attività di cura, il 44,3% riceve aiuto dagli altri familiari, il 17,3% da personale pagato per l’assistenza, il 4,4% da personale pagato per i servizi domestici, appena il 2,5% da personale pubblico, l’1% dagli amici, lo 0,5% da volontari. La terapia riabilitativa è il servizio di cui usufruisce la maggioranza dei pazienti (il 57,6%), mentre marginale è il ruolo dei servizi socio-sanitari e assistenziali. Il 41,4% può contare sull’aiuto economico e/o gli sgravi fiscali, il 26,6% sui siti web in cui trovare informazioni dettagliate sulla malattia e sui trattamenti, il 16,7% sui rapporti con altri familiari di malati, il 13,8% sull’infermiere a domicilio in caso di necessità, il 12,8% sulla consulenza psicologica, l’11,8% sul numero telefonico sempre disponibile di una équipe medica per chiedere informazioni sulla terapia.
Il 79,2% dei caregiver ha risentito in termini di salute dell’impegno per l’assistenza al malato di Parkinson. Il 65,3% si sente fisicamente stanco, 13,6% delle donne afferma di soffrire di depressione, rispetto al 2,1% degli uomini. Dedicarsi all’assistenza del malato di Parkinson comporta anche cambiamenti lavorativi per il 36,9% dei caregiver. Nel 26,1% è risultato un impatto negativo su tutti i componenti del nucleo familiare. E per l’8,4% ci sono state anche conseguenze sulla relazione di coppia.
Farmaci e nuove terapie – dice il prof. Pietro Cortelli, presidente Fondazione LIMPE – possono contribuire a migliorare in modo sensibile la qualità di vita del malato ma questo è solo l’apice di un triangolo. Gli atri due sono medico e altre figure sanitarie e parenti.