(di Santa #Fizzarotti Selvaggi) In occasione del Convegno “ Mediterraneo, mare di pace “ organizzato dalla sezione di Bari della Associazione Crocerossine d’ Italia Onlus vi sono stati interventi pregevoli che ci piace porre all’attenzione per una riflessione . L’intervento qui di seguito proposto e ‘ del Prof . Filippo Maria Boscia , ginecologo e Presidente Nazionale AMCI ,
“Grazie per questo invito che mi è giunto molto gradito e che onora me e tutta l’Associazione dei Medici Cattolici Italiani che ho il delicato compito di presiedere. Sono orgoglioso di condividere con voi questo incontro che definirei di “Misericordia e di accoglienza”, di riflessione e di impegno che fa parte di un grande progetto.
Ringrazio la sezione di Bari dell’Associazione Crocerossine d’Italia Onlus e S.E. Mons. Francesco Cacucci per averci coinvolto in questo incontro che si traduce in una nuova linfa per la tutta la comunità diocesana e che ci colloca in uno spazio privilegiato di pensiero e di ardito dibattito su questioni nodali della nostra contemporaneità che riguardano la pace, l’integrazione, l’accoglienza, il sostegno, la solidarietà e la sussidiarietà di una umanità tanto spesso defraudata della sua dignità.
Siamo qui con l’aiuto di tutti voi, intervenuti così numerosi, per essere tutti promotori e testimoni di pace, per interrogare le nostre coscienze, appassionare le nostre menti, stimolarle per recuperare sapienza, saggezza e per promuovere ogni possibile e necessaria sfida con l’ambizione di attuare un confronto autenticamente vero.
Occuparsi a tutto campo nell’odierna società delle relazioni intergenerazionali e multiculturali sostenute dalle migrazioni, è cosa estremamente ambiziosa, da condividere a tutto campo, in un profondo e convinto progetto etico di vita. Quando poi ci si occupa dei bambini, dei bambini transculturali, spesso non accompagnati, ma sempre alla ricerca dei loro genitori, spesso non ritrovati! e quando vogliamo sostenere la fatica di anime innocenti chiamate a crescere a cavallo di due mondi, allora, ancor più il nostro impegno diventa doveroso ed ineludibile.
Sempre più spesso questi figli nascono in un paese straniero, in un nido che tanto spesso pone una distanza radicale con gli affetti primari, condannati ad una solitudine di intimità e forse anche in clima di abbandono.
Le condizioni di vita dei bambini stranieri, soprattutto di quei minori non accompagnati o di quelli allo sbando, sempre figli dell’immigrazione rappresentano la peculiarità essenziale degli effetti della globalizzazione sulle persone. Emigrano in un paese straniero non per loro diretta scelta e non sempre al seguito dei genitori, molto spesso inviati soli, senza protezione per attraversare un mare periglioso che è stato già tomba per molti. Altri direttamente nascono in territorio straniero sempre e comunque: la scelta è fatta dagli adulti, non da loro!
Parliamo oggi proprio di tutti questi bambini, cioè dei bambini transculturali! La loro presenza è “inevitabile”, “incontenibile”.
In quanto minori, ai bambini e adolescenti si riconoscono — almeno sulla carta — una serie di diritti: diritto alla salute, all’istruzione, a crescere in una famiglia, a parlare la lingua madre, ad avere radici stabili e non mi riferisco solo alle loro radici biologiche. In quanto giunti e per di più anche se nati in Europa, a loro si riconoscono “a parole” diritti che nel complesso sono, troppo spesso, diritti di carta, ossia formali e non de facto.
Recenti studi epidemiologici sui figli di immigrati in Italia e in Francia rilevano un più elevato tasso di ospedalizzazione; sono state evidenziate maggiori difficoltà prescolastiche e scolastiche, e soprattutto di apprendimento non disgiunta da notevole povertà di linguaggio e tanto altro ancora (Moro 2001). Ciò significa che questi bimbi, questi ragazzi, questi nostri fratelli, figli degli immigrati sono più fragili, più vulnerabili. La loro vulnerabilità non dipende tanto dal fatto che provengono da famiglie disagiate, né dal fatto che vivono nei quartieri periferici e spesso marginali delle grandi metropoli industriali. La loro vulnerabilità è riconducibile al peculiare fatto di essere “immigrati in attesa di giudizio”. La loro vulnerabilità è legata ad un dato principale, quello di vivere una situazione trans-culturale. E questo significa più semplicemente che non bastano le buone campagne informative di tipo culturale-sanitario, né le garanzie del semplice accesso ai servizi socio-sanitari per migliorare le loro condizioni di salute, né può essere sufficiente solamente affiancare loro un buon insegnante di sostegno per migliorare l’apprendimento della lingua e favorire i processi di alfabetizzazione. Occorre tanto altro ancora perché quel che offriamo certamente non risolve i loro problemi. Sta tutto qui il nocciolo del rapporto tra diritti formali e diritti sostanziali! Per loro la peculiare caratteristica delle azioni di sostegno non potrà essere solo riferita agli esiti più o meno riusciti di integrazione sociale e/o di inclusione nel paese di arrivo versus quello di nascita, quanto alle necessità che il loro vivere sia sempre ben integrato e tutelato nonostante siano essi a cavallo di due culture. Bisogna soprattutto tener presente che sono le prime esperienze infantili a segnare in questi termini i bambini stranieri. Questo assunto pretende che nella relazione con loro, chiunque, genitori o educatori, volontari o altri operatori dovrebbero essere disponibili sempre, anche se con diverso grado di intenzionalità, a mediare di fatto un orizzonte culturale di riferimento, un orizzonte interculturale, anche se a volte questo orizzonte potrà essere conflittuale. Tutti gli operatori di prossimità, genitori inclusi ove presenti, non dovrebbero trovarsi mai ai margini. Viceversa, spesso accade che vi sia solitudine perché di frequente occorre che idealmente vengano prese e rispettate le distanze.
Di contro occorre sempre tener presente che “crescere in esilio è una sfida, anche perché davvero tanti sono gli interferenti: La posizione sociale, lo status socioeconomico, le politiche di accoglienza, le appartenenze religiose, i diversi profili etnici e culturali, la composizione della società di origine di quella di accoglienza, le peculiari caratteristiche antropologiche: Tutte queste sono specifiche coordinate che potrebbero influenzare e determinare effetti dirompenti socio-ambientali, psicologico-emotivi e azioni psicosociali”.
“Si’, crescere in esilio è una sfida. Essere figli di migranti o diventare migranti in qualunque luogo è infatti un evento critico, complesso e insieme avventuroso, che segna oggi l’avvenire delle nostre società moderne” (Moro 2001: 3). La Moro ben descrive l’obiettivo di chi accoglie: Quello di permettere ai piccoli o agli adolescenti migranti, o ai figli accompagnati o non, di essere “I tessitori sempre al lavoro per ricucire localmente due mondi distanti e peraltro separati da un arresto improvviso. Lo strappo reso più acuto anche in riferimento al lutto dalla drammatica cesura che accomuna i sopravvissuti ai morti, ai naufraghi di quegli affondamenti, vere e proprie catastrofi umane.
altri fattori di vulnerabilità spesso presenti sin dalla nascita sono aggravati dai processi di difficile socializzazione che la comunità di accoglienza e le strutture disponibili, le agenzie educative e la scuola non riesce a colmare. Le ferite sono spesso rimarcate e “cronicizzate” piuttosto che curate.
Mi preme sottolineare alcuni punti:
- pensiamo ad esempio anche a particolari situazioni quali ad esempio una gravidanza vissuta con difficoltà dalla madre, alla solitudine, alla mancata condivisione con il gruppo dei pari, all’assenza di aggregazioni sociali, ad esempio con altre donne;
- spesso noi registriamo nella interpretazione dei pensieri materni spiacevoli sensazioni legate a paura, angoscia e sfiducia;
- certamente il maternage è diverso!
- la madre può perdere le originarie sicurezze, può presentarsi in maniera confusa al bambino, da non riuscire più a trasmettere al bambino quella serena e bella percezione caleidoscopica del mondo capace di condizionare in positivo il repertorio sensoriale e la formazione dell’imprinting neuro psichico del bambino.
Questi sono alcuni dei motivi per cui il figlio di migranti nella maggior parte dei casi è un “soggetto senza guida”.
Tutti siamo chiamati ad un’azione quotidiana e regolare di interscambio e comunicazione culturale affinchè si raggiunga massima integrazione tra la cultura del loro paese a quella del paese di arrivo. Questa integrazione definita “familiarizzazione” rende comprensibile, intelligibile e positivo ogni meticciato socio-culturale. I bambini sono i principali attori chiamati a ricucire localmente due mondi separati: Questi bambini devono connettere due mondi: devono essere capaci di evitare il dilemma di doverne tradire uno a vantaggio dell’altro. La sfida — oltre che il rischio — della trans-culturalità sta proprio nella difficoltà di ricostruire un insieme! A partire da piccoli e disordinati frammenti deve essere ricostruito un nuovo metabolismo in grado di trasformare le differenze e le diversità in opportunità. E’ un lavoro molto pesante, spesso molto difficile, ma possibile.
Sono cambiamenti forti, irreversibili e inarrestabili che richiedono una nuova e diversa sensibilità politica e culturale: il multiculturalismo diventa la nuova sfida etica della nostra post modernità e ci costringe a cimentarci e riflettere sulla reale portata dei fenomeni, sul significato di termini quali identità culturale e “identizzazione”, sul senso e la natura oggi dell’”appartenenza”, sui rassicuranti stereotipi dello straniero e del diverso. Negare legittimità alle diversità, chiudersi a riccio, alzare barriere è una strategia miope e perdente: miope perché non vede che gli stranieri che abitano tra di noi ci aiutano ad evidenziare e portare alla luce le diversità e le differenziazioni che sono anche in noi; perdente perché, come direbbe Baumann (2002), le “convergenze culturali”, che si nutrono più di ciò che accomuna e unisce, piuttosto che di ciò che distingue e divide, sono un dato di fatto. Occorre che i processi di convergenza non si interrompano mai, perché non si arrivi a creare fratture culturali incolmabili e foriere di violenze e odi, è necessario non tanto e non solo promuovere politiche di integrazione, per evitare che il conflitto culturale copra nei fatti il conflitto di classe (con l’esito di dare il via alla ‘guerra dei poveri!’), quanto, soprattutto, politiche di promozione di una diversa cultura civica e di implementazione di una nuova cittadinanza che, pur valorizzando e riconoscendo la diversità, trovi convergenze forti e vincolanti sia per gli autoctoni che per gli stranieri su norme e valori condivisi e rispettati.
Pensate ad esempio alle “tate, colf e badanti”, le nuove protagoniste del “mercato globale della cura” che stanno rivoluzionando nelle nostre case le relazioni di cura. E in azione un fiume carsico che, in prospettiva, impatterà sulle nostre vite molto più in profondità e pervasivamente di quanto si possa pensare o temere.
Occorre che ci si abitui ad accogliere e integrare quelle “famiglie transnazionali”.
Occorre riflettere anche sui tanti traumi emotivi, affettivi e psicologici connessi ad altre situazioni che riguardano i figli degli altri lasciati nelle loro nazioni. Mentre le madri e i padri sono in terra straniera per lavori umilianti, braccia per lavorare i loro figli sono orfani anche se ancora infanti in fasce.
Mi riferisco a quelle specifiche situazioni che non riguardano solo le condizioni abitative. Molte sono le donne che sono divise tra due unità di appartenenza: quella in cui vivono e quella che hanno lasciato. Molte sono le realtà neocostituite di madri che vengono a lavorare qui da noi da paesi stranieri anche lontani nel settore dei servizi di cura (bambini e anziani), lasciando a casa i propri figli, spesso affidati ai mariti, ai propri parenti o a “tate” locali: figli che diventano i “bambini della nostalgia” (Favaro, Colombo 1993).
Polemicamente si è detto che le donne occidentali devono la loro emancipazione dal lavoro di cura e l’opportunità di dedicarsi totalmente alla professione, a quelle donne immigrate che lavorano per emancipare se stesse e la propria famiglia, sollevandola dalla povertà e indigenza: Loro “vendono” il lavoro del prendersi cura, della care, risorsa sempre più scarsa e sempre più necessaria nella nostra società occidentale. E così, mentre noi ci interroghiamo se e quanti immigrati fare entrare ed accogliere, mentre ancora ci aspettiamo che arrivino solo “braccia” per lavorare e non persone, in realtà non solo le nostre vite si incontrano sempre più frequentemente con le “vite degli altri”, ma sempre più frequentemente inglobano pezzi e frammenti delle “vite degli altri”.
C’è un positivo lavoro di commistione e contaminazione che parte dall’intimo, dal cuore relazionale, dai vincoli di solidarietà e di reciprocità tra le generazioni e che va ad aprire brecce e varchi nella comunicazione sino a rendere più deboli barriere e confini. Non è solo il mercato globale della produzione e degli scambi che mette donne, uomini, bambini e adulti sui sentieri delle migrazioni, ma è anche il mercato globale della cura che sta cambiamento rapporti e relazioni tra i diversi paesi.
Cosa si può fare?
Innanzitutto dobbiamo imparare a vedere e interpretare i problemi connessi alla libertà di migrazione. Noi dobbiamo ricercare alcuni ideali strumenti da offrire nelle fragilità e che consentano di ristabilire con efficienza la profondità e la ricchezza dei rapporti, ovvero offrire gli strumenti per camminare insieme: E’ questa l’ontologia dell’epoca che viviamo.
Il secondo aspetto è l’educazione che deve sempre essere un potenziamento delle libertà in vista del bene. L’educazione è l’aiuto ad incarnare in noi stessi le situazioni concrete che siamo chiamati a risolvere.
Per l’altro è una guida che conduce per mano all’interno delle dinamiche dell’esistenza .
Il lavoro dell’educatore consiste in questo: saper vivere un ideale convincente per sé e per l’altro, per gli altri che sono i nostri figli o i figli degli altri, tutti comunque hanno il diritto di non smarrirsi.
L’uomo deve decidersi ad operare per il bene, ma anche per il bello. Bene e bello sono forze attrattive in assoluto più convenienti rispetto a tutte le altre alternative.
Se non ci convinciamo in questo senso lavoreremo soltanto per delle pie illusioni, per cose non concrete che forse poterebbero essere ritenute convenienti ma che non promuovono gli obiettivi di bene e che ci lasciano asserviti, mentre una società impazzita finisce per inghiottire la parte migliore della nostra umanità.
I percorsi educativi non sono soltanto da attribuirsi ai genitori, ma è la società tutta che deve proporre ideali, spazi di condivisione senza chiudersi ideologicamente in rifiuti preconfezionati e immotivati e per altro anche immorali.
Ogni rifiuto di tal tipo costituisce vere e proprie violenze e prevaricazioni.
Non abbiamo bisogno di rapporti velati, ma rapporti sinceri! “
Al prof Filippo Maria Boscia va la nostra gratitudine per il Suo impegno scientifico di grande umanità .