Probabilmente si arriverà a breve ad una soluzione nella vicenda dei 49 migranti bloccati al largo di Malta sulle navi Sea Watch e Sea Eye.
Circa dieci i Paesi che hanno offerto la propria disponibilità ad accoglierli (Italia, Germania, Francia, Portogallo, Lussemburgo, Olanda e Romania) solo e soltanto dopo che il governo di Malta inizierà a collaborare facendo attraccare le navi nei suoi porti. La Valletta, invece, alza la posta e chiede che oltre alle 49 persone a bordo delle due navi delle ong, siano ridistribuiti anche altri 249 profughi salvati nei giorni scorsi. Nessuna disponibilità, invece, dai paesi del blocco Visegrad come la Polonia e l’Ungheria.
Oggi Sea Watch, scrive l’Ansa, ha lanciato l’allarme, i migranti a bordo hanno iniziato a rifiutare il cibo.
La stessa Ong tedesca in un tweet ha ribadito il timore che “il loro stato psicologico e di salute possa peggiorare sensibilmente”. “A bordo di SeaWatch stiamo registrando episodi di persone che rifiutano il cibo – scrive l’organizzazione non governativa – Non possiamo credere che tutto questo stia accadendo a poche miglia dalle coste europee”.
Intanto la Germania si è detta disponibile a partecipare all’accoglienza dei profughi delle due navi, “nell’ambito di una soluzione solidale europea”. Lo ha detto il portavoce del governo tedesco Steffen Seibert, in conferenza stampa a Berlino, rispondendo ad alcune domande sullo sviluppo della situazione dei profughi delle imbarcazioni della Sea Watsch e della Sea Eye. Berlino, che ha anche “intensi contatti e colloqui” con la Commissione Ue per risolvere l’emergenza, “sostiene gli sforzi di Bruxelles” di queste ore in questa direzione.
Fonti del governo italiano ribadiscono che non c’è stata nessuna polemica tra il ministro Matteo Salvini, il presidente Giuseppe Conte e altri componenti del governo sul caso Sea Watch e Sea Eye. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini non cambia posizione e ribadisce la contrarietà a qualsiasi arrivo via mare in Italia, per bloccare una volta per tutte il traffico di esseri umani che arricchisce scafisti, mafiosi e trafficanti. La soluzione sono i corridoi umanitari via aereo per chi scappa davvero dalla guerra, già confermati dal ministro Salvini anche per il 2019.
Nell’intera vicenda il segretario generale dell’associazione Avocats Sans Frontières Italia, Francescomaria Tuccillo ha evidenziato per primo il vuoto legislativo che fa da sfondo alle affermazioni del governo e ha presentato, giorni fa, un esposto alle Procure di Roma e di Napoli. In questo periodo Tuccillo si trova in Africa: dopo qualche giorno in Zimbabwe ora è a Nairobi, in Kenya. Rossella D’Averio sulla testata Juorno.it lo ha intervistato per approfondire la delicata tematica.
I migranti a bordo della “Sea Watch” e della “Sea Eye” sono in totale meno di cinquanta, ma la loro vicenda sta diventando non solo umanamente inaccettabile, ma anche politicamente simbolica. Oltre delle affermazioni di facciata, dal sapore più o meno propagandistico, come pensa si dovrebbe affrontare il problema delle migrazioni?
“Innanzi tutto credo sia bene sottolineare le dimensioni storiche e cronologiche del fenomeno migratorio, che affonda le sue radici nel tempo ed è destinato a durare a lungo. L’impoverimento delle popolazioni africane (di cui i paesi occidentali sono in gran parte responsabili perché hanno consumato per secoli le vaste risorse naturali del cosiddetto “continente nero” senza contropartita alcuna per chi vi vive), associato ai cambiamenti climatici e all’assenza di democrazia in molte nazioni, sono all’origine della migrazione biblica cui assistiamo dal Sud al Nord del mondo, motivata da ragioni di pura sopravvivenza.”
Chi mette i suoi figli su un barcone insicuro, pagando un prezzo, non compie certo una scelta di diletto: scappa dalla fame, dalla sete, dalle torture e dalla guerra. E continuerà a farlo. Non è quindi proclamando a forza di post e di tweet la chiusura dei porti italiani (peraltro illegale in assenza in un decreto specifico) che si risolverà il problema dei flussi migratori. Il fenomeno meriterebbe una riflessione etica, geopolitica, sociale, economica e legislativa profonda, che vada ben oltre la demagogia di breve termine. In sintesi, quali le paiono le strade da percorrere?
La prima, nell’immediato, mi pare l’apertura rapida del porto europeo più vicino, sia esso maltese o siciliano, per prestare immediato soccorso a chi ne ha bisogno. Mi auguro che la concreta solidarietà di cui ha parlato Papa Francesco non resti lettera morta o buona intenzione senza seguito affidata a un giornale o a un post. È noto quali siano le vie lastricate di buone intenzioni. In una prospettiva più ampia, rispondo con due parole: Europa e internazionalità. E mi spiego. È indubbio che l’Europa, tristemente assente dalla scena in questi giorni (e non per la prima volta), dovrebbe invece avere una voce politica forte per poter affrontare con autorevolezza e coesione un dramma che marcherà i prossimi decenni. E sottolineo volutamente l’aggettivo “politica”. Oggi l’Unione non è attrezzata per farlo, perché la sua dimensione è in sostanza puramente burocratica ed economica. Anche se può parere irrealistico, è davvero tempo di ripensare le strutture giuridiche e i trattati europei tornando alle origini, cioè all’idea di Europa dei suoi padri fondatori. Non è questa la sede per approfondire l’argomento, ma occorrerebbe trovare il coraggio di edificare una “nuova” Europa politica in grado di fronteggiare problemi globali che i suoi vecchi e piccoli Stati-nazione di matrice ottocentesca non sanno e non possono risolvere da soli, come dimostrano ogni giorno. Konrad Adenauer scrisse decenni fa: «L’unità dell’Europa era un sogno di pochi. È stata una speranza per molti. Oggi è una necessità per tutti». Mi pare che la citazione si adatti perfettamente al nostro tempo. Senza Europa, senza una nuova Europa, siamo e saremmo inermi davanti all’evoluzione economica, marginali di fronte alle potenze mondiali antiche e nuove e inefficaci – oltre che inumani – nella gestione del problema migratorio.
E che cosa intende con “internazionalità”?
Nel breve-medio termine, in attesa che questa nuova Europa si costruisca, guardiamo all’Italia e alle sue imprese. Oltre a essere avvocato, sono stato e sono un manager di aziende operanti in diversi settori di attività e ho lavorato per dieci anni in Africa, sia come imprenditore sia come dirigente di grandi gruppi industriali. È a ragion veduta quindi che vorrei sottolineare come l’Italia possieda un saper fare ineguagliato in termini di competenze professionali, innovazione, prodotti industriali e artigianali, infrastrutture, gestione delle risorse idriche e agricole, produzione e distribuzione di beni di largo consumo. Un saper fare che è apprezzato nel mondo, ma non si internazionalizza a sufficienza. Penso soprattutto alle piccole e medie imprese, che sono la colonna vertebrale della nostra economia, e ai paesi africani come mercato di sbocco. Il Nord Italia è pieno di società di questo tipo, eccellenti ma troppo spesso ripiegate sul mercato nazionale, intimorite o non aiutate abbastanza a esportare. I loro prodotti – dalle macchine agricole ai mobili, dagli alimentari alle costruzioni – sarebbero utilissimi alle nazioni africane o, per lo meno, a molte tra esse. Spesso, parlando di Africa, si generalizza a sproposito, sia per quanto riguarda i regimi politici sia per quanto concerne i suoi abitanti. L’Africa è un continente con un miliardo e duecentomila persone e cinquantaquattro nazioni, alcune ancora ancorate a regimi dittatoriali post-coloniali e, in genere economicamente sofferenti. Altre invece in fase di decisa trasformazione, cioè in cammino verso una maggiore stabilità democratica ed economica. Se nelle nazioni poco democratiche l’intervento politico internazionale è prioritario (da cui la necessità di un’Europa forte sulla scena mondiale), in quelle in evoluzione si potrebbe avviare un percorso di crescita benefico sia per la loro economia sia per il nostro business. In altre parole, se le aziende italiane grandi e medie incrementassero le loro attività africane, potrebbero creare valore per se stesse e lavoro per l’Africa. Sarebbe questo il modo migliore per aiutare gli africani «a casa loro» e non solo a parole. Ovviamente per farlo occorrerebbe una politica industriale intelligente, lungimirante e, aggiungerei, “umanistica”, cioè guidata non solo dall’interesse di pochi ma dal bene comune di molti.
Più in concreto, quali azioni potrebbero compiersi a breve?
Ce ne sono tante. Innanzi tutto, lo ripeto, sarebbero necessarie una politica industriale e una politica estera coerenti tra loro, attive, strategiche, autorevoli, dotate di pensiero lungo e aperte al mondo, non ripiegate su se stesse e sulle proprie urgenze elettorali. Inoltre, per venire ad azioni più immediate, si potrebbe incentivare il counter trading, promuovere un sistema bancario più efficace e competitivo e infine ampliare e dinamizzare il ruolo di Ice, l’agenzia per la promozione all’estero delle imprese italiane, e di Sace, l’azienda della Cassa Depositi e Prestiti che dovrebbe accompagnare l’internazionalizzazione delle aziende con i suoi servizi assicurativi e finanziari. Ice dovrebbe andare oltre compiti puramente rappresentativi e Sace radicarsi nel territorio, fare formazione, aggiornare i suoi dati e comunicare non solo sulle evoluzioni ma anche sulle potenzialità di ogni paese. Le faccio due soli esempi tra i tanti, relativi ai paesi che ho appena visitato o in cui mi trovo. Pensiamo allo Zimbabwe: se un imprenditore italiano di buon senso guardasse la cosiddetta “scheda paese” sul sito web della Sace, non sarebbe mai propenso a investirvi. Purtroppo i dati risalgono al 2017 e non c’è nessuna informazione sulle ultime evoluzioni di questa nazione. A Harare è insediato, dallo scorso autunno, un nuovo governo, che ha posto fine al potere quarantennale assoluto di Robert Mugabe. È stato annunciato un piano quadriennale di stabilizzazione delle finanze, che ha ricevuto l’approvazione e il supporto del Fondo Monetario Internazionale. E le priorità in termini di infrastrutture, beni di consumo e gestione delle risorse naturali sono molte e promettenti. Varrebbe la pena di esplorarle con attenzione. Quanto al Kenya, è la controprova di quanto ho appena detto. Il paese è in crescita, sono già molte le aziende europee e italiane grandi e medio-piccole che vi sono presenti nei settori delle costruzioni edili, dell’arredamento o del food & beverage. E non ci sono kenioti che emigrano. Nessuno qui si sognerebbe di farlo. Senza parlare dell’Angola, nazione ricchissima. Comperare un appartamento in centro a Luanda, la capitale, costa come comprarlo a Manhattan o a Kensington. E addirittura è ora difficile per un italiano ottenere un visto d’ingresso in Angola, così come lo è per un africano ottenerlo in Italia. Insomma, stiamo attenti a dire “Africa”. Stiamo attenti a non cadere nei luoghi comuni generalizzanti che purtroppo sono entrati a far parte del linguaggio corrente di alcuni tra i nostri politici. L’Africa è grande, varia, ricca di risorse e in evoluzione. E stabilirvi relazioni politiche, economiche e industriali costruttive è non solo positivo per noi e per loro, ma diventerà necessario.
Sì, in estrema sintesi sì. I problemi epocali del nostro tempo richiedono risposte globali intelligenti e non formule magiche. Una politica lungimirante e generosa, un’economia al passo con i tempi e un’industria aperta davvero al mondo potrebbero, insieme, dare risposte concrete a questo problema. E a molti altri.