Il premier italiano Giuseppe Conte a Tripoli ha incontrato il presidente Al Serraj e a seguire il Presidente dell’Alto Consiglio di Stato, Khaled Al Meshri. Poi il premier italiano ha incontrato generale Khalifa Haftar a Bengasi. Una missione attraverso la quale portare avanti, con il lavoro della diplomazia e dell’intelligence, il piano proposto con la Conferenza internazionale di Palermo, il 12 e 13 novembre scorsi. Al centro dei colloqui il tema, già affrontato anche con l’inviato Onu Ghassam Salamé, della stabilizzazione libica.
Giuseppe Conte nel corso del colloquio con Al Serraj, a quanto riferiscono fonti di Palazzo Chigi, il premier ha auspicato che il 2019 possa essere “l’anno della svolta” per la Libia: “Non vogliamo decidere le sorti del popolo libico, ma come Paese abbiamo a cuore le sue sorti ed è questa la ragione per cui ci siamo incontrati a novembre a Palermo e per cui oggi sono qui: c’è una premura dell’Italia di offrire un contributo affinché possiate trovare un percorso di pace e di stabilità“.
Il premier italiano ha assicurato che si farà portatore di questo messaggio di sostegno nei suoi contatti di oggi con gli altri interlocutori libici.
Poi Giuseppe Conte è stato da Haftar a Bengasi. Ha ribadito che la “via maestra per stabilità resta accordo politico” Nel corso del lungo incontro con Khalifa Haftar il premier italiano ha ribadito che la via maestra per una soluzione stabile per la Libia resta un accordo politico. Conte è poi decollato alla volta di Tobruq per incontrare il Presidente della Camera dei rappresentanti Agila Saleh.
Un cambiamento di rotta dell’Italia con l’uomo forte della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar. Una missione segreta fino a ieri, organizzata dalla Farnesina e dall’Aise (i servizi d’intelligence italiani).
Il premier italiano, prima di partire, aveva già avuto un colloquio con l’inviato Onu in Libia, Ghassam Salamé, nel quale è stato ribadito come il lavoro dell’Italia rientri nel percorso dell’Onu per la stabilizzazione libica. L’Italia è molto attiva in Libia (sostenuta da Usa e Russia) e lo dimostra la recente nomina dell’ambasciatore a Tripoli, Giuseppe Maria Buccino Grimaldi, ma anche con l’apertura del Consolato a Bengasi.
Conte con Serraj avrà sicuramente detto che l’Italia, a differenza della Francia, non ha solo riconosciuto formalmente la sua premiership e il Governo di Accordo Nazionale (GNA), ma che ha anche concretamente sostenuto il processo di pacificazione con la consegna dei medicinali nei vari distretti e con la donazione di mezzi e addestramento della Guardia Costiera libica, tramite la missione Eunavfor Med- Op. Sophia.
Altro punto messo sul tavolo è il rafforzamento di istituzioni condivise sia da Tripoli che da Bengasi. Haftar, secondo l’incontro avuto a Palazzo Chigi lo scorso 6 dicembre, vuole avere l’appoggio del governo italiano al piano di unificazione delle forze armate della Libia e divenirne il comandante generale. Condizione che Haftar ha posto, anche a Palermo, appoggiando Serraj come primo ministro nella fase di transizione verso le elezioni che, secondo la road map di Salamé dovrebbero tenersi entro giugno 2019. A gennaio 2019 è prevista una conferenza generale, preparatoria alla fase elettorale.
L’Italia ha dovuto cambiare rotta ed includere anche il generale Kalifa Haftar nella convinzione che per fare significativi passi in avanti nel complicato processo di stabilizzazione della Libia e affrontare il problema delle frontiere esterne, occorra puntare sull’uomo che più garantisce il controllo del territorio, soprattutto di quella parte della Libia (Fezzan) dove si concentrano maggiormente gli interessi italiani, che riguardano gli impianti petroliferi (ENI) e il contrasto ai trafficanti di esseri umani.
Haftar ha circa 40mila uomini e il supporto della maggioranza delle tribù più potenti in Libia, in Cirenaica ma anche in Tripolitania.
L’apertura italiana verso Haftar è dovuta anche al fatto che altri attori internazionali hanno creato con lui una relazione privilegiata, dall’Egitto, agli Emirati, alla Russia e alla Francia
Altro capitolo scrive Giovannangeli su Huffington Post è la questione delle condizioni dei migranti trattenuti in Libia, vittime di stupri di gruppo e violenze di ogni tipo.
La stragrande maggioranza delle donne, anche minorenni, subisce questo trattamento nei campi di detenzione allestiti in Libia per i migranti che dall’Africa cercano di raggiungere l’Europa, secondo un dettagliato rapporto stilato, e reso pubblico nei giorni scorsi, dalle Nazioni Unite che parla di torture, di schiavismo, di omicidi, di cadaveri gettati via come spazzatura. Un documento basato sui racconti di prima mano raccolti fra il gennaio 2017 e il 30 settembre scorso dalla viva voce di 1.300 migranti, che a quell’infermo libico e ai suoi «inimmaginabili orrori» sono sopravvissuti, riuscendo ad arrivare in Europa. Il rapporto – presentato a Ginevra e frutto del lavoro della missione Onu in Libia e dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani – lancia infatti un monito all’Europa, che chiude porti e frontiere, ribadendo che la Libia “non può essere considerato un porto sicuro” dove riportare i migranti intercettati in mare dalla guardia costiera di Tripoli. Perché quelle persone, che da quel tunnel buio e terribile erano appena uscite, vengono così riconsegnate ai loro aguzzini, con la prospettiva di doverlo ripercorrere.
Il rapporto dell’Onu è una scioccante galleria di “violazioni e abusi”, dei quali erano già trapelate notizie in passato, commessi da un largo ventaglio di persone che in Libia occupano posti pubblici, da gruppi armati, trafficanti di esseri umani e contrabbandieri. “Le donne, adulte e adolescenti, vengono generalmente stuprate dal branco, mentre altre vengono prelevate e portate in altri posti dove subiscono violenze e da cui tornano sconvolte, ferite e con abiti strappati”. I testimoni raccontano anche di altri detenuti assassinati, torturati, di condizioni di detenzione disumane, di schiavismo, sfruttamento e lavori forzati. E anche estorsioni: più soldi di quelli già pagati per il viaggio, estorti ai familiari esercitando minacce sul loro caro tenuto in ostaggio e minacciato di sevizie o di essere ucciso. Nei centri di detenzione, rivela il rapporto, le condizioni di squallore e violenza non cambiano per i bambini. “Innumerevoli migranti e rifugiati hanno perso la vita durante la cattività, in mano a trafficanti, uccisi a colpi di arma da fuoco, torturati a morte o semplicemente lasciati morire di fame o per negate cure mediche”, si legge nel documento. “In tutta la Libia, corpi non identificati di migranti e profughi con ferite da arma da fuoco, segni di tortura e ustioni vengono scoperti, spesso in cesti della spazzatura, letti di fiumi in secca, fattorie e nel deserto”.