Tra le ritenute dei dipendenti, degli autonomi e dei collaboratori, gli acconti Iva/Ires/Irpef/Irap e le addizionali comunali/regionali Irpef, questo mese gli italiani sono a chiamati a versare all’erario 55 miliardi di euro.
Anche quest’anno novembre si conferma il mese delle tasse. L’Ufficio studi della CGIA ricorda che, ad esempio, nel 2018 il gettito tributario complessivo aveva superato i 500 miliardi di euro. Questa imponente massa monetaria è affluita nelle casse pubbliche rispettando precise scadenze fiscali che, da sempre, si concentrano prevalentemente tra giugno/luglio e tra novembre/dicembre.
Il 2018, comunque, è stato un anno particolare: la scadenza del 30 giugno è “caduta” di sabato e, conseguentemente, ha provocato uno slittamento in avanti dei versamenti estivi. Dichiara il coordinatore dell’Ufficio studi Paolo Zabeo:
“Una parte importante delle imposte che dovranno essere pagate questo mese dalle imprese sono in realtà una partita di giro, come l’ Iva o le ritenute dei propri dipendenti; tuttavia, non saranno comunque pochi gli imprenditori, soprattutto quelli di piccola dimensione, che per onorare queste scadenze si troveranno in difficoltà. Il rallentamento dell’economia emerso in questi ultimi mesi ha allungato i tempi di pagamento anche nei rapporti commerciali tra imprese private, provocando non pochi squilibri finanziari a tantissime piccole aziende che da sempre sono a corto di liquidità e sottocapitalizzate”.
L’ammontare complessivo del gettito in capo alle imprese è avvertito ormai da tutti come un problema che deve essere affrontato in tempi rapidissimi. Tuttavia, non va nemmeno dimenticata la necessità di semplificare il quadro normativo del nostro sistema fiscale.
“Con un fisco più semplice e trasparente – dichiara il segretario Renato Mason – anche l’Amministrazione finanziaria potrebbe lavorare meglio ed essere più efficiente per contrastare l’evasione/elusione fiscale. La moltitudine di leggi, decreti, regolamenti e circolari esplicative presenti nel nostro ordinamento tributario, invece, complica la vita non solo agli addetti ai lavori, ma anche agli operatori del fisco che, comunque, continuano ad essere uno dei comparti più virtuosi di tutta la nostra Amministrazione pubblica”.
Tornando ai numeri della ricerca, l’imposta più onerosa che le imprese e i lavoratori autonomi verseranno questo mese sarà l’Iva, che comporterà un incasso per l’erario di 15 miliardi di euro. Segue l’acconto Ires in capo alle società di capitali (Spa, Srl, Società cooperative, etc.): queste ultime anticiperanno al fisco 13,3 miliardi di euro. I collaboratori e i lavoratori dipendenti, attraverso i rispettivi datori di lavoro, “daranno” al fisco le ritenute per un importo pari a 11,9 miliardi di euro. L’acconto Irpef, invece, costerà alle aziende e ai percettori di redditi diversi (fitti, plusvalenze, lavoro occasionale, etc.) 6,2 miliardi di euro, mentre l’Irap implicherà un prelievo di 6,1 miliardi. L’addizionale regionale Irpef garantirà ai Governatori 1 miliardo, mentre le ritenute dei lavoratori autonomi peseranno sulle tasche di questi ultimi per 950 milioni di euro. Le addizionali comunali Irpef, infine, permetteranno ai Sindaci di incassare 413 milioni di euro e dalle ritenute dei bonifici delle detrazioni Irpef l’erario incamererà 190 milioni di euro.
È utile segnalare che il gettito di ciascuna imposta definita in questa elaborazione è stato stimato sulla base dell’andamento registrato negli ultimi anni. Oltre a ciò, si è tenuto conto delle principali modifiche legislative intervenute nel frattempo. Precisa il ricercatore dell’Ufficio studi Andrea Vavolo:
“In questa stima, infatti, si è tenuto conto della diversa articolazione degli acconti che, a partire dal mese di novembre 2019, interesserà i contribuenti soggetti agli Indicatori Sintetici di Affidabilità fiscale (ISA). In particolare, gli acconti saranno composti da due rate ciascuna pari al 50 per cento del totale da versare, in luogo dell’attuale ripartizione che vede la prima rata pari al 40 per cento dell’imposta dovuta per l’anno precedente e la seconda del 60 per cento”.
Già a partire dal mese di novembre di quest’anno, infatti, l’applicazione di tale disposizione equivale a una riduzione dell’acconto (solo per i contribuenti soggetti agli ISA) al 90 per cento (come risulta confermato dalla relazione illustrativa al predetto provvedimento). L’Ufficio studi, infine, tiene a precisare che in questa analisi non sono stati conteggiati i contributi previdenziali che dovranno essere versati entro il prossimo 16 novembre. Essendo sabato, questo pagamento slitta a lunedì 18 novembre.
- In Italia la pressione fiscale sulle imprese è al 59,1 per cento. In UE solo i francesi sono più tartassati di noi
Sebbene sia una comparazione che va analizzata con molta prudenza, secondo gli ultimi dati presentati nelle settimane scorse dalla Banca Mondiale (Doing Business), solo la Francia (60,7) presenta un carico fiscale sulle imprese (in percentuale sui profitti commerciali) superiore al dato Italia (59,1). Se la media dell’Area Euro è pari al 42,8 per cento (16,3 punti in meno che da noi), la Germania registra il 48,8 per cento e la Spagna il 47 per cento. Per ciascun paese esaminato, questa elaborazione fa riferimento ad una media impresa (società a responsabilità limitata) con circa 60 addetti e alle imposte pagate nell’anno 2018, al secondo anno di vita dell’impresa (ovvero nata nel 2017). L’incidenza del totale delle imposte sui profitti commerciali registrata dall’Italia nel 2018 (59,1 per cento) è abbastanza in linea con il dato del 2015 (62 per cento). Nei due anni intermedi (biennio 2016 e 2017) si è verificata un’incidenza sensibilmente inferiore (rispettivamente del 48 e del 53,1), riconducibile all’effetto dell’introduzione di alcune misure temporanee che hanno alleggerito il costo del lavoro, in particolar modo dei neoassunti con un contratto di lavoro a tempo indeterminato.
- Le poche holding rimaste versano le tasse altrove: lo sforzo fiscale delle imprese è tutto in capo alle Pmi
Se fino a 35 anni fa anche le grandi imprese davano un contributo importante in termini di gettito, da qualche decennio questo apporto si è praticamente esaurito. Sino alla prima metà degli anni ’80, ad esempio, l’Italia era tra i leader mondiali nella chimica, nella plastica, nella gomma, nella siderurgia, nell’alluminio, nell’informatica e nella farmaceutica. Grazie al ruolo e al peso di tante grandi imprese pubbliche e private (Montedison, Eni, Montefibre, Pirelli, Italsider, Alumix, Olivetti, Angelini, etc.), lo sviluppo economico ed occupazionale ruotava attorno a questi comparti e il fisco ne traeva un grande beneficio. A distanza di quasi 40 anni, invece, molte di queste realtà si sono estinte e una parte dei pochi grandi player rimasti, inoltre, ha deciso di trasferirsi dove si pagano meno tasse. Ancorché non si possa parlare di evasione, non sono poche le holding italiane (FCA, Eni, Enel, Ferrero, Telecom, Saipem, Luxottica Group, Illy, etc.) che da qualche anno hanno trasferito la sede legale principale, o di una consociata, nei Paesi Bassi per beneficiare anche della fiscalità di vantaggio offerta da questo Paese. Se a queste specificità aggiungiamo il comportamento inaccettabile di alcune grandi multinazionali del web, che fanno utili importanti nel nostro Paese ma le imposte le versano altrove, possiamo affermare senza il rischio di essere smentiti che lo sforzo fiscale delle imprese italiane è in capo quasi esclusivamente alle Pmi.
- Penultimi in Europa per gli Investimenti Diretti Esteri (IDE)
Sarà un caso che il nostro Paese sia in coda alla graduatoria europea per quanto concerne gli investimenti realizzati dalle grandi imprese straniere? Ovviamente, no. Ma è altrettanto vero che a causa dell’oppressione burocratica che grava sulle imprese, della lentezza che caratterizza la giustizia civile, dell’inefficienza generale della Pubblica Amministrazione e della cronica mancanza di infrastrutture sociali ed economiche, i grandi investitori internazionali si guardano bene da “impegnarsi” nel nostro Paese. L’Italia, a fronte di uno stock di IDE pari al 20,5 per cento del Pil (pari a 361,1 miliardi di euro) è al penultimo posto a livello europeo. In UE solo la Grecia presenta uno stock di investimenti inferiore al nostro (16 per cento del Pil) e tale tendenza è stata purtroppo confermata anche nel quadriennio 2014-2017. Le distanze con i nostri principali competitor europei sono significative: se nel 2018 la Germania registrava un ammontare complessivo di IDE del 23,5 per cento del Pil, la Francia segnava il 29,7 e la Spagna addirittura il 48,3.
- Tante tasse e ben 30 giorni per pagarle
Oltre ad avere la pressione fiscale sulle imprese tra le più elevate d’Europa, siamo il Paese, assieme al Portogallo, dove pagare le tasse è più difficile. Sempre dai dati presentati recentemente dalla Banca Mondiale (Doing Business), in Italia sono necessari 30 giorni all’anno (pari a 238 ore) per raccogliere tutte le informazioni necessarie per calcolare le imposte dovute; per completare tutte le dichiarazioni dei redditi e per presentarle all’Amministrazione finanziaria; per effettuare il pagamento on line o presso le autorità preposte.
In Francia, l’unico Paese UE con un carico fiscale sulle imprese superiore al nostro, per espletare le incombenze burocratiche derivanti dal pagamento delle tasse sono necessari solo 17 giorni, mentre la media dell’Area dell’Euro è di 18 giorni. Anche in questa comparazione, i dati sono della Banca Mondiale, che per ciascun Paese prende in esame una media impresa (società a responsabilità limitata), al secondo anno di vita e con circa 60 addetti. L’anno di riferimento è il 2018.