Open Innovation ancora lenta in Italia eppure può dare al Pil una marcia in più

   

(di Massimiliano D’Elia) E’ un sistema di innovazione per cui le aziende ricorrono anche a risorse provenienti dall’esterno (startup, università, incubatori etc.) per favorire la ricerca e sviluppo di materiali ed elementi costruttivi unici e all’avanguardia. Una indagine condotta da Accenture sostiene che solo in Italia, tale modello potrebbe generare  una crescita del Pil di oltre il 2%.

Ecco che nascono le prime sinergie tra regioni italiane. E’ nata la piattaforma Open Innovation Campania, varata nei giorni scorsi dalla Regione. Si tratta di un marketplace ideato in collaborazione con la Regione Lombardia che ha l’obiettivo di favorire l’incontro tra domanda di innovazione proveniente dai big player e l’offerta di soluzioni tecnologiche di startup e imprese innovative del territorio.

La piattaforma è attiva all’indirizzo: www.openinnovation.campaniacompetitiva.it

Tutti parlano di open innovation, ma cosa significa esattamente? L’open innovation (“innovazione aperta”) è un modello di innovazione secondo il quale le imprese, per creare più valore e competere meglio sul mercato, non possono basarsi soltanto su idee e risorse interne ma possono ricorrere anche a strumenti e competenze tecnologiche che arrivano dall’esterno, in particolare da startup, università, istituti di ricerca, fornitori, inventori, programmatori e consulenti.

Come nasce il termine “open innovation”

 Il termine è stato coniato dall’economista statunitense Henry Chesbrough, che nel saggio The era of open innovation (2003) rifletteva sul fatto che la globalizzazione avesse reso sempre più costosi e rischiosi i processi di ricerca & sviluppo, perché il ciclo di vita dei prodotti era diventato più breve.

Secondo Chesbrough il paradigma della “closed innovation”, ovvero la ricerca fatta all’interno dei confini dell’impresa, non poteva più bastare nonostante i timori delle aziende di non essere più gli unici “proprietari” delle invenzioni e i legittimi tentativi di tutelare le proprie proprietà intellettuale con brevetti e altri strumenti.

La collaborazione tra startup e grandi aziende

L’innovazione chiusa non è più sufficiente perché le conoscenze e i talenti viaggiano  ad una velocità sempre maggiore a causa delle reti web e della facilità negli spostamenti. Perciò, è diventato più difficile trattenerli in azienda a vita. Dall’altra parte, i mercati dei capitali, come insegna il caso delle startup della Silicon Valley, hanno cominciato a concentrarsi anche su aziende basate su modelli di business e approcci completamente nuovi e disruptive rispetto al passato. Non attingere a questi nuovi saperi collaborando con altre aziende, magari più avanzate dal punto di vista digitale, può rivelarsi uno svantaggio significativo: chi non lo fa rischia di ritrovarsi non al passo con i tempi. E di perdere un sacco di denaro, visto che secondo un’indagine condotta da Accenture stimolare la collaborazione tra aziende e startup (o altri soggetti innovatori) può generare in tutto il mondo una potenziale crescita di circa 1,5 trilioni di dollari, pari al 2,2% del Pil globale.

Il modello dell’open innovation

La formula dell’open innovation prevede che un’azienda possa accedere alle innovazioni “in vendita” sul mercato integrandole con il proprio modello di business. Un processo del genere consente anche un più rapido time to market, ovvero un tempo minore per passare dalla fase di ideazione del prodotto o servizio o alla sua immissione sul mercato: di alcune di queste fasi, come per esempio la prototipazione di alcuni manufatti, possono occuparsi in taluni casi anche realtà esterne come le startup. Secondo questo schema, la competizione quindi non la vince chi produce al proprio interno le migliori innovazioni ma chi riesce a creare prodotti e servizi innovativi modulando al meglio ciò che viene da dentro e ciò che viene da fuori.Sono solo poche le grandi aziende che hanno una platea di risorse interne talmente ampia e funzionale da non necessitare di uno scambio con l’esterno.

Come si realizza l’open innovation

Le modalità concrete attraverso le quali si realizza l’open innovation possono essere molteplici. Solo per menzionarne alcune: gli accordi inter-aziendali, per cui un’impresa delega a un’altra, di solito più piccola, la creazione di determinate innovazioni o la produzione di specifici manufatti; il sovvenzionamento di competizioni per startup, con l’impegno di investire – direttamente o indirettamente – in quelle che hanno sviluppato le innovazioni più promettenti; gli hackathon, ovvero le gare di programmazione per cui le aziende chiedono a developer e innovatori di inventare soluzioni digitali innovative in 24 ore in un determinato settore; l’acquisizione, da parte di grandi corporation, di startup innovative al fine di integrare nel proprio organico dei talenti digitali e di rilevare alcune delle principali innovazioni realizzate da questi ultimi; la creazione di acceleratori di startup gestiti direttamente o indirettamente da grandi aziende; la condivisione e la circolazione di idee innovative, anche secondo la filosofia open source, attraverso eventi di networking e conferenze; la partnership con università, centri di ricerca e incubatori per innovare su specifici temi.

Da Google a Samsung, le mosse dei big player

Che l’interesse per l’open innovation sia forte lo dimostrano le politiche messe in atto da molte delle più grandi aziende del mondo. La prima regola dell’innovazione per Google è, per esempio, “Innovation comes from anywhere”, l’innovazione può venire da qualunque parte. E in base a questo principio, incoraggia gli scambi con altre startup, alcune delle quali sono acquisite direttamente o finanziate attraverso Google Ventures. Samsung, per menzionare un altro big player, ha aperto diversi open innovation center, tra cui uno proprio in Silicon Valley, nel cuore dell’innovazione mondiale.

I casi in Italia

Anche in Italia, l’attenzione per l’open innovation sta crescendo. E alle dichiarazioni di principio fanno seguito anche i fatti. Per esempio, Novartis Pharma, che attraverso il suo capo Europa Guido Guidi ha affermato che “l’innovazione che si basa solo sull’interno non è più sufficiente” ha lanciato una competition per startup come BioUpper ed è dotata di un proprio fondo di venture capital che investe su nuove imprese nel campo delle scienze della vita. Il responsabile dell’innovazione di Enel, Ernesto Ciorra, ha sottolineato proprio in un’intervista a EconomyUp quanto sia più importante fare innovazione aperta che dire di farla. E nel caso del colosso italiano dell’energia, una delle modalità di open innovation è stata la partecipazione al superacceleratore iNCENSE, supportato anche dall’Ue nell’ambito del programma Fiware, per sostenere progetti open source legati alle energie pulite. Ancora, Digital Magics, l’incubatore di startup digitali creato da Enrico Gasperini, nel 2015.

Dalla World Open Innovation Conference di qualche anno fa  è emerso che questa pratica, nei Paesi che l’adottano da più tempo, è entrata in una fase di maturità. In Italia, invece, si procede a ritmi più lenti. Fincantieri è tra le grandi aziende italiane che ha promosso ed attuato l’open innovation, come policy aziendale e metodo per la R&S. I risultati raggiunti pongono Fincantieri azienda tra i leader mondiali della cantieristica navale. Ci auguriamo che il 2018 segni anche per l’Italia l’anno della svolta per altre aziende italiane anche alla luce delle nuove elezioni politiche che vedranno salire in carica un nuovo Governo che potrebbe attuare politiche più favorevoli per l’industria italiana, anche  nel settore dell’open innovation.