di Antonio Adriano Giancane
Il Pakistan sta attraversando uno dei periodi più critici della sua storia, segnato da una grave crisi politica ed economica. Il paese è stato devastato da una serie di attentati terroristici che continuano a seminare terrore e distruzione, mentre la povertà dilaga, schiacciando una popolazione sempre più disperata. Per molti, l’idea di fuggire all’estero è l’unica speranza, ma le difficoltà per emigrare rendono questo sogno quasi irrealizzabile. Il degrado delle infrastrutture e le strade semidistrutte testimoniano la gravità della situazione, con la miseria visibile in ogni angolo del paese.
Percorrendo le strade disastrate, non si può ignorare la presenza di migliaia di persone costrette a mendicare per sopravvivere. Uomini, donne e bambini affollano i bordi delle strade, chiedendo aiuto o impegnandosi in lavori umili e mal pagati. La situazione è particolarmente drammatica lungo la trafficata strada principale di Gujranwala, nel Punjab pakistano, dove la vista di bambini che mendicano è un fenomeno quotidiano e angosciante. Dietro molti di questi bambini si nasconde una realtà ancora più cupa: l’accattonaggio, spesso orchestrato da organizzazioni criminali che sfruttano i più vulnerabili, lucrando sulla disperazione di chi non ha altre alternative.
In questo contesto già complesso, si è parlato di una pace instabile che aleggia sul paese dopo le elezioni di febbraio, una sorta di pseudo-pace che ha mascherato temporaneamente il crescente malcontento della popolazione. Questa tranquillità apparente è stata bruscamente interrotta la scorsa settimana in Balochistan, dove le tensioni latenti sono esplose in una serie di attacchi violenti. Dopo settimane di proteste pacifiche, oltre 70 persone sono state uccise in scontri che hanno visto gruppi separatisti baloch attaccare infrastrutture critiche e persino fermare veicoli per identificare e uccidere 23 passeggeri.
Il Balochistan, una regione strategica e ricca di risorse naturali, è da tempo teatro di ribellioni. Nonostante i massicci investimenti stranieri, come quelli della Cina nel porto in acque profonde parte della “Nuova Via della Seta”, la popolazione locale rimane intrappolata in una povertà cronica, alimentando risentimento e conflitti armati. Questi ultimi attacchi si distinguono per l’alto numero di vittime civili, in gran parte Punjabi, percepiti dai ribelli come rappresentanti di un odiato stato centrale.
La crisi economica del Pakistan, aggravata da un’inflazione elevata e dai rigidi programmi di austerità imposti dal Fondo Monetario Internazionale (FMI), ha colpito duramente la popolazione più povera. Mentre l’élite riesce spesso a sfuggire alle conseguenze delle misure economiche, il malcontento cresce. Sul fronte politico, l’ex primo ministro Imran Khan, nonostante sia stato estromesso dal potere nel 2022, rimane una figura popolare. Tuttavia, l’attuale primo ministro Shehbaz Sharif, espressione di una famiglia dominante nella politica pakistana, ha mantenuto il controllo del paese, nonostante le continue proteste dei sostenitori di Khan, spesso represse con crescente brutalità.
Il Pakistan sta attraversando una fase estremamente critica, in cui le crisi economica, politica e sociale si intrecciano, creando un circolo vizioso di violenza, povertà e instabilità che sta portando a una crescente emarginazione sociale nel paese. Molti cittadini, disillusi dalla mancanza di cambiamenti concreti, vedono nella violenza l’unico strumento per ottenere un mutamento. Nel frattempo, i partiti politici consolidati e i militari, che hanno dominato il paese per decenni, stanno perdendo sempre più legittimità agli occhi della popolazione.
La crescente repressione della società civile e la limitata libertà di stampa rendono difficile valutare con precisione l’entità della crisi. Mentre la situazione della sicurezza continua a peggiorare, l’Occidente, preoccupato dal rischio di un collasso dello Stato pakistano e dalle implicazioni legate al suo arsenale nucleare, continua a garantire a Islamabad l’accesso a prestiti favorevoli.
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