La pressione fiscale in Italia, data dal rapporto tra le entrate fiscali e il Pil, ha raggiunto il 43,8 per cento (Documento di Economia e Finanza 2022. Nota di Aggiornamento. Versione rivista e integrata. Consiglio dei Ministri del 4 novembre 2022, pag. 13); un livello mai toccato in precedenza.
L’Ufficio studi della CGIA segnala che il record storico raggiunto quest’anno, comunque, non è riconducibile ad un aumento della tassazione su famiglie e imprese, ma dall’interazione di tre aspetti congiunturali distinti. Il primo da un forte aumento dell’inflazione, che ha fatto salire le imposte indirette; il secondo dal miglioramento economico e occupazionale avvenuto nella prima parte dell’anno, che ha favorito la crescita delle imposte dirette e il terzo dall’introduzione nel biennio 2020-2021 di molte proroghe e sospensioni dei versamenti tributari, agevolazioni che sono state cancellate per il 2022.
Oltre a queste tre specificità, va altresì considerato che a partire da marzo di quest’anno le famiglie italiane percepiscono l’assegno unico, misura che ha sostituito le “vecchie” detrazioni per i figli a carico. Questa novità (a parità di condizioni) ha delle evidenti implicazioni sul calcolo della pressione fiscale. Se le detrazioni riducevano l’IRPEF da versare al fisco, la loro abolizione ha incrementato il gettito fiscale complessivo annuo di circa 8,2 miliardi di euro. Ricordiamo che, ora, le risorse per erogare l’assegno unico vengono contabilizzate nel bilancio statale come uscite.
In termini assoluti, infine, segnaliamo che secondo i dati resi noti nei giorni scorsi dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (gennaio-settembre 2022), le entrate erariali, rispetto allo stesso periodo del 2021, sono cresciute di 37 miliardi di euro: di cui 5,5 miliardi di Irpef, 8,9 miliardi di Ires e 17,8 miliardi di IVA (Comunicato stampa n. 181. Roma, 7 novembre 2022).
Con l’introduzione del bonus Renzi, dal 2014 la pressione fiscale in Italia presenta una doppia lettura: quella al netto degli sgravi fiscali – che nel 2022 ha raggiunto il 41,9 per cento del Pil – e quella ufficiale che tocca il picco massimo del 43,8 per cento.
In verità c’è anche una terza versione: quella reale che si ottiene depurando dal Pil nazionale la quota riconducibile all’economia non osservata che, per sua natura, non “produce” gettito. Ricordando che la pressione fiscale è pari all’incidenza percentuale del rapporto tra il gettito erariale e il Pil, se quest’ultimo termine diminuisce (perché si sottrae la quota riconducibile al sommerso), il risultato finale aumenta. Per l’anno in corso, infatti, la pressione fiscale reale in capo ai contribuenti fedeli al fisco si avvicina ormai al 50 per cento.
Quando si analizza la pressione fiscale degli altri Paesi dell’UE, per ragioni di omogeneità dei dati si deve far riferimento alla pressione fiscale ufficiale. Infatti, le regole che impongono di registrare come maggiore spesa e non come minore entrata molti sgravi fiscali e sovvenzioni, come ad esempio l’assegno unico per i figli a carico, sono uguali per tutti i Paesi. Detto ciò, gli ultimi dati a disposizione riferiti al 2021, ci dicono che nell’UE a 27 l’Italia è al quinto posto. Solo Danimarca (49 per cento del Pil), Francia (47 per cento), Belgio (45,4) e Austria (43,6) presentano un carico fiscale superiore al nostro (43,4 per cento del Pil). Se in Germania la pressione fiscale è 42,3 per cento, in Spagna è al 38,8 per cento e in Irlanda (paese che registra il livello più basso di tutta UE) è addirittura al 21,7 per cento.
Oltre ad avere un peso fiscale tra i più elevati d’Europa, l’Italia è il Paese dove pagare le tasse è anche più difficile, in particolar modo per le aziende. La burocrazia fiscale, infatti, ha dimensioni impressionanti. Non solo. Paghiamo molto ma in cambio riceviamo poco. Certo, anche la nostra Pubblica Amministrazione presenta in alcuni settori dei picchi di eccellenza non riscontrabili altrove. Mediamente, però, la qualità e la quantità dei servizi resi ai cittadini e alle imprese è molto inferiore alla media europea. Tornando al tema della burocrazia fiscale, secondo le ultime statistiche disponibili elaborate dalla Banca Mondiale (Doing Business 2020), gli imprenditori italiani, come i colleghi portoghesi, “perdono” 30 giorni all’anno (pari a 238 ore) per raccogliere tutte le informazioni necessarie per calcolare le imposte dovute; per completare tutte le dichiarazioni dei redditi e per presentarle all’Amministrazione finanziaria; per effettuare il pagamento on line o presso le autorità preposte. In Francia per espletare le incombenze burocratiche derivanti dal pagamento delle tasse sono necessari solo 17 giorni (139 ore), in Spagna 18 (143 ore) e in Germania 27 (218 ore), mentre la media dell’Area dell’Euro è di 18 giorni (147 ore). I dati si riferiscono a una media impresa (società a responsabilità limitata), al secondo anno di vita e con circa 60 addetti.