Riflessioni post moderne: il vento del totalitarismo soffia da Oriente

(di Giovanni Ramunno) Nella tradizione russa la capacità d’influenzare le società e i loro processi decisionali è una funzione strategica vitale. La manipolazione aggressiva da parte russa dell’opinione internazionale e interna a sostegno degli obiettivi nazionali (governativi) è stata ormai da tempo riconosciuta come una minaccia sostanziale per le nazioni democratiche.

Il mondo cosiddetto “antagonista”, comunista prima e o post-moderno poi, sono stati gli strumenti dei manipolatori dell’opinione pubblica, che li utilizzavano per sostenere teorie messe in dubbio dai loro stessi politici, promuovendo postulati morali dubbi basati su teorie filosofiche fallaci o anche solo polarizzando i pubblici su qualsiasi cosa potesse disorientare le acritiche opinioni pubbliche delle fragili democrazie, ammalate di populismo.

Entrando nel merito, si ricorderà come nella seconda metà del Novecento, i burocrati comunisti leggevano la “Legge dello Stato Sovietico” di Vyshinsky, gli intellettuali europei, in nome Søren Kierkegaard, Friedrich Nietzsche e Heidegger, non solo promuovevano una teoria filosofica comunista, nichilistica e violentemente avversa a qualsiasi metafisica, ma svilivano quanto di più prezioso e difficile da realizzare ci avevano proposto i nostri genitori: una vera democrazia.

Paradossalmente, i più agguerriti censori del comunismo erano oltre la cortina. In particolare, il segretario di Stalin, Boris Bazhanov, si esprimeva in perfetti termini maccartisti con la sua impietosa critica del comunismo intitolata “Memorie dell’ex segretario di Stalin”. Lo stesso sulla teoria marxista era perentorio: “come scienza è una sciocchezza; come metodo di guida rivoluzionaria delle masse, è un’arma indispensabile.”

Comunque, le sirene sovietiche gradualmente trasformavano un’ideologia in una “cultura” in senso antropologico, che nella sua propria sussistenza aveva un valore che doveva essere difeso ad ogni costo, ben oltre delle esigenze della verità o della moralità. I fatti di Budapest, Praga e il crollo del Muro di Berlino rappresentano per i sessantottini una intollerabile e assurda rivolta delle parti contro il tutto, una insensata violazione della gerarchia ontologica.

Questa cultura politica ha inciso profondamente sulle menti e sulla cultura politica russa e, in occidente, ha guidato molti utili idioti che non comprendevano perché i politici sovietici avrebbero manipolato le loro azioni, spingendoli a sostenere le sciagurate iniziative della dittatura dei gulag e a non accorgersi di quanto nocive queste azioni fossero anche per la democrazia.

Negli anni ’70 un gruppo di post-strutturalisti in Francia, in particolare Jacques Derrida, Michel Foucault, Jean Baudrillard, rifacendosi a Nietzsche, Marx, Freud, Kierkegaard e Heidegger, sviluppando una critica radicale della filosofia moderna, consentivano ai manipolatori orientali di riproporsi sulla scena politica occidentale con una nuova maschera, pur mantenendo inalterate le stesse basi filosofiche. Questo morfismo sarà denominato da Jean-François Lyotard postmodernismo, mediante il suo “La condizione postmoderna” (1979).

Nel frattempo, i populismi hanno estremizzato il plebiscitarismo permanente e il rapporto diretto tra le masse e i nuovi “caudillo”, imponendo alla “comunidad” una mediazione politica molecolare, nonché una pressione ideologica e la pratica clientelare da parte del movimento politico di turno.

C’è chi, come ad esempio Gianni Vattimo, scorge nelle iniziative sociali e politiche di Hugo Chávez, Luiz Inácio Lula da Silva ed Evo Morales in Sud America tracce del comunismo ermeneutico.

Una moltiplicazione e decostruzione delle prospettive, tuttavia, non ha avuto gli esiti emancipativi e la radicale liberalizzazione che immaginavano i filosofi, anzi si è riacutizzato il germe dello sciovinismo zarista e stalinista, attraverso un autocrate inquilino del Cremlino, che reinterpreta giornalmente il principio di Nietzschenon ci sono fatti, solo interpretazioni” e riscopre il vero significato del detto di Nietzsche: “La ragione del più forte è sempre la migliore”

Ascoltando le follie di Jacques Derrida che propone l’invito heideggeriano alla Destruktion dei concetti della metafisica, senza rendercene conto, intacchiamo i sistemi storici e concettuali a noi più vicini, fornendo ancora una volta un argomento contro la democrazia e la libertà, prontamente cavalcato dal vicino russo a caccia di utili idioti.

Il suo ambasciatore, l’ideologo di estrema destra russo Alexander Dugin ed esponente di spicco del neo-eurasiatismo, è il fautore di un nuovo morfismo chiamato questa volta la Quarta Teoria Politica.

Non è un caso che il nuovo profeta, pur non presentando un’ideologia preconfezionata, critichi ferocemente il liberalismo. Dugin postula la sua “quarta teoria” distinguendola dalle tre principali ideologie della modernità – il liberalismo, il comunismo e il fascismo – sostenendo la necessità di un loro superamento per opporsi al neo-liberalismo egemone nella postmodernità, proponendo un regime totalitario più violento di quello di Kim Jong-Un.

Il filosofo russo si circonda di un’aurea pseudointellettuale attingendo al bestiario filosofico marxista e proponendo così il concetto heideggeriano di Dasein e, come i vecchi comunisti, strumentalmente, recluta in Occidente utili idioti che riscoprano presunti valori come la giustizia sociale, la comunità di popolo, la libertà della persona nell’ottica di un nuovo progetto culturale.

L’Occidente, prigioniero di una fallace ottica di emancipazione insistendo su delle erronee premesse filosofiche che negano qualsiasi tesi metafisica, accetta ai suoi confini un movimento totalitario potenzialmente distruttivo.

Nel frattempo, Dugin si incontra in Serbia, con Jim Dowson, fondatore di Britain First, l’ex leader del British National Party Nick Griffin e altri attivisti di estrema destra europei che condividono il futuro progetto di fascismo illimitato e rosso, sotto lo sguardo compiaciuto dei marxisti europei di stampo maoista.

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