Ritorna la tensione in Kosovo

I risentimenti tra Serbia e Kosovo non sono affatto sopiti dopo tanti anni passati dalla guerra degli anni ’90. Nel corso degli anni tanti sono stati i momenti di frizione, ma ieri sera la situazione è diventata tesissima quando le autorità del Kosovo hanno chiuso due valichi di confine con la Serbia per i blocchi stradali messi in atto da dimostranti kosovari di etnia serba per protestare contro nuove leggi approvate dal governo su documenti di identità e targhe automobilistiche, in vigore da oggi.

Media internazionali riferiscono che il presidente serbo Aleksandr Vucic, in un discorso televisivo, ha mostrato una cartina del Kosovo coperto dalla bandiera serba e ha avvertito che se i serbi saranno minacciati, la Serbia ne uscirà vittoriosa.

Le notizie al momento sono frammentarie ma da quanto si apprende in tutto il Kosovo settentrionale si sono sentite allarmi, mentre chiese e monasteri hanno suonato ripetutamente le campane. In alcuni casi sarebbero stato avvertiti degli spari e osservati movimenti di truppe al confine tra i due paesi.

I manifestanti kosovari di etnia serba hanno bloccato le strade che conducono ai valichi di confine di Jarinje e Bernjak, obbligando le autorità a deciderne la chiusura. Media locali riferiscono che la Forza per il Kosovo a guida Nato (Kfor) ha inviato militari a pattugliare le strade. I manifestanti protestano contro la decisione di Pristina di imporre a partire da domani anche ai serbi che vivono in Kosovo l’uso esclusivo di carte d’identità e targhe kosovare. A partire dalla guerra del 1999, il Kosovo aveva tollerato l’uso di targhe emesse dalle istituzioni serbe in quattro municipalità del nord del Paese dove sono presenti maggioranze serbe. D’ora in poi sarà, invece, obbligatorio l’uso di targhe con l’acronimo Rks, cioè Repubblica del Kosovo. I proprietari di automobili hanno tempo fino alla fine di settembre per effettuare il cambiamento.

Il presidente serbo Aleksandar Vucic, parlando alla nazione, ha affermato che “i serbi del Kosovo non tollereranno altre persecuzioni. Cercheremo la pace, ma lasciatemi dire che non ci arrenderemo. La Serbia non è un Paese che si può sconfiggere facilmente come lo era ai tempi di Milosevic“.

Da tempo la tensione tra i due paesi dei Balcani sta salendo di intensità e Belgrado denuncia persecuzioni nei confronti della minoranza serba in Kosovo. Questo sarebbe anche uno dei motivi scatenanti, unito al fatto di una possibile – secondo le dichiarazioni serbe – “invasione da parte delle truppe kosovare a partire dalla mezzanotte tra domenica e lunedì 1 agosto”.

La Russiachiede a Pristina, agli Stati Uniti e all’Unione Europea di fermare le provocazioni e di rispettare i diritti dei serbi in Kosovo”. Lo afferma la portavoce del ministero ministro degli Esteri russo, Maria Zakharova. Zakharova ha anche sottolineato che un tale sviluppo degli eventi è un’altra prova del fallimento della missione di mediazione dell’Unione europea.

La guerra nel Kosovo del 1999

Lo scontro etnico nella ex Iugoslavia non si concluse con la soluzione della vicenda bosniaca, ma conobbe un’ulteriore deriva nel territorio del Kosovo, regione della Serbia che aveva goduto di una certa autonomia sotto il regime di Tito e dove la maggioranza della popolazione (oltre l’80%) era di religione musulmana e di etnia albanese.
Il leader serbo Milosevic, che considerava il Kosovo un territorio sacro per i Serbi, tolse alla regione la propria autonomia: quando, nel 1990, il Kosovo si autoproclamò repubblica indipendente, Belgrado sciolse d’autorità il locale Parlamento.
A quel punto gli Albanesi del Kosovo elessero un nuovo Parlamento e, subito dopo, ebbero inizio le prime sanguinose azioni terroristiche dell’esercito di liberazione del Kosovo (Uck), che provocarono una durissima repressione da parte delle forze serbe e l’inizio di una sanguinosa guerra civile. Nel febbraio 1998 i bombardamenti serbi richiamarono l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale, mentre migliaia di persone, per sfuggire alla morte, lasciarono le loro case e molte giunsero in Albania, Grecia, Macedonia. Nell’autunno dello stesso anno la Nato minacciava Milosevic di bombardare la Serbia, qualora non si fossero fermate le operazioni di pulizia etnica contro i Kosovari Albanesi.

Dopo il fallimento di un tentativo di soluzione diplomatica alla crisi, la Nato decise di intervenire  militarmente (attraverso bombardamenti su bersagli militari in Serbia e Kosovo), con l’intento umanitario di salvare la popolazione civile del Kosovo da deportazioni e stragi di massa. Dopo 78 giorni dall’intervento militare si raggiunse un accordo, che metteva fine alla guerra e che imponeva alla Serbia di ritirare le truppe e di riconoscere la presenza in Kosovo di un contingente militare composto da forze Nato e russe, sotto il controllo dell’Onu, al fine di garantire il ripristino delle normali condizioni di vita della regione. Il Kosovo restava però un’area di tensione, tenuta a freno soltanto dalla presenza di migliaia di soldati del contingente Nato sotto l’egida dell’Onu.
Il 28 giugno 2001 Milosevic fu consegnato al Tribunale penale internazionale per i crimini nella ex Iugoslavia per essere processato. L’11 marzo 2006 egli però fu trovato morto, in circostanze mai chiarite, nella sua cella del carcere dell’Aia. La morte di Milosevic precedette di qualche mese la data presumibile della conclusione del processo a suo carico; nel marzo 2006 il Tribunale ha ufficialmente estinto l’azione penale e ha chiuso senza una sentenza il più importante processo per il quale era stato istituito.

I militari della Nato in Kosovo

Il 12 giugno 1999 le prime forze della NATO entravano in Kosovo su mandato ONU al termine della campagna aerea dell’Alleanza che aveva messo fine al sanguinoso conflitto interetnico tra Kosovari e Serbi.

Per aver contribuito ininterrottamente per 21 anni alla sicurezza e alla libertà di movimento di tutti i cittadini del Kosovo, nel rispetto  della risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la missione KFOR ha rappresentato e rappresenta un fondamentale fattore di stabilita’.

Forte di oltre 50.000 soldati nel 1999, attualmente il contingente multinazionale conta poco meno di 4000 militari forniti da 27 nazioni.

L’ITALIA. Gli italiani si trovano presso il Quartier Generale di Pristina e al Regional Command West con sede a Belo-Polje. 

Al Regional Command West (RC-W) di KFOR, si è svolta giorni fa una breve ma solenne cerimonia che ha visto il reggimento Piemonte Cavalleria (2°), reparto che guida l’unità multinazionale presso la base “Camp Villaggio Italia”, celebrare la considerevole tappa dei 330 anni di costituzione e dare l’avvio alle operazione in teatro operativo kossovaro.

Un tradizionale cippo commemorativo è stato inaugurato alla presenza dei rappresentanti delle 10 nazioni che compongono RC-W ed Il 97° comandante, colonnello Ivano Marotta, ha dedicato un pensiero ai valori ed alla storia secolare dello Stendardo di Piemonte Cavalleria, quale memento per continuare a lavorare con la stessa dedita abnegazione che ha avuto origine nel 1692, anche e soprattutto verso i delicati compiti affidati da KFOR.

Il reggimento Piemonte Cavalleria (2°), unità esplorante della brigata alpina “Julia”, si è insediato lo scorso 26 luglio al comando di RC-W, in località Belo-Polje nelle vicinanze della cittadina di Peja/Pec.

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