Politiche commerciali restrittive sono state una “tentazione” ricorrente nel corso della storia più o meno recente della comunità internazionale, in particolare nei momenti di difficoltà. La crisi del ’29, le guerre mondiali, la guerra fredda, sono momenti storici in cui il protezionismo ha rappresentato la scelta di politica economica preponderante (Figura 1). Questo non ha impedito tuttavia una sempre maggior integrazione dei mercati attraverso interconnessioni infrastrutturali e la progressiva globalizzazione dei processi produttivi.
Cosa ci dicono i dati? Che il protezionismo è “fuori moda”. La letteratura esistente è ampiamente concorde nel verificare che, ai tempi della “iperglobalizzazione”, il protezionismo non sia la strategia migliore per aumentare la competitività, proteggere il mercato del lavoro locale e rilanciare l’economia di paesi in affanno. Lo sviluppo e la diffusione dell’Information & Communication Technology infatti ha determinato una diffusione del know-how trasversale ai confini nazionali, frammentando la produzione in diverse geografie in base a criteri di convenienza relativi a competenze e costo del lavoro e rendendo più efficiente l’integrazione dei processi produttivi piuttosto che l’isolamento. Questo processo appare inarrestabile, alla luce del continuo progresso tecnologico e dell’integrazione dei paesi nelle catene del valore globale (Global Chain Value). Il protezionismo inoltre non sembra favorire la competitività delle produzioni nazionali, poiché provvedimenti commerciali restrittivi comportano tipicamente un incremento dei costi di importazione e del prezzo dei beni esportati.
Cosa dobbiamo attenderci nei prossimi anni, un ritorno al protezionismo o sempre più integrazione?
Foto La Repubblica