(di Francesco Matera) Il pantano del Sahel, una zona del mondo dove gli eserciti regolari hanno fallito e dove le milizie terroristiche hanno maggiore presa sulla gente locale, un po come è avvenuto in Afghanistan dopo 20 anni di guerra.
L’Italia è presente con un contingente militare che opera nella micidiale “zona delle tre frontiere” in supporto ai 5.000 soldati francesi e ai militari dei governi provvisori locali. Dovremo collaborare con eserciti come quello maliano che i rapporti delle Nazioni Unite appellano come una feccia vandalica responsabile di massacri tra le popolazioni che, invece, dovrebbero difendere.
I governi alleati, Mali e Burkina Faso, stanno trattando neppur troppo di nascosto, con le formazioni jihadiste compresi il “Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani” Gsim, legato ad Al Qaeda, e lo “Stato islamico del grande Sahara”. Ci sono zone del Sahel dove sono in vigore tregue di fatto tra jihadisti e eserciti locali e che uomini e mezzi dei gruppi islamisti circolano liberamente in villaggi, piste e città in cambio di sospensione degli attacchi. Insomma stiamo li per aiutare i francesi in un pantano da dove è impossibile uscirne se non con qualche morto italiano in dote. Probabilmente la strategia italiana è quella di insediarsi in quella zona per cercare di gestire il flusso dei migranti verso il nostro Paese, considerata la Libia ormai territorio turco-russo. Oppure è un impegno discendente dal tanto discusso Trattato del Quirinale?
Sull’Economist vi è una significativa testimonianza dell’inferno nella striscia africana del Sahel.
Specialmente a nord la situazione è drammatica, non c’è Stato, non c’è sicurezza. I villaggi sono al sicuro solo quando nei paraggi ci sono i peacekeepers delle Nazioni Unite.
Emblematica la zona di Gao, dove, una volta, vi erano le truppe britanniche: una sera di agosto, al tramonto, i jihadisti hanno fatto irruzione nella città di Outtagouna, a circa 170 km da Gao, uccidendo 54 giovani. Le forze Onu arrivarono troppo tardi, riferisce il maggiore Hudson. Una sottile cornice di sicurezza può essere garantita solo dalle forze Onu che sul campo impiega circa 15.000 caschi blu.
La Francia ha circa 5.000 soldati che combattono in Mali, sostenuti logisticamente da circa 1.000 soldati americani. Altri militari di forze armate europee, invece, addestrano l’esercito maliano.
Eppure, anche con queste forze schierate gli insorti si sono diffusi senza sosta in tutto il Mali e nel vicino Niger e Burkina Faso.
Più di un milione di persone sono state costrette a lasciare le loro case e più di 10.000 sono state uccise negli ultimi due anni. In breve, i governi della regione e i loro sostenitori occidentali stanno lentamente perdendo la guerra.
In gran parte del Mali non ci sono polizia, giudici, insegnanti o infermieri. Le forze di pace delle Nazioni Unite hanno recentemente portato un governatore regionale in un villaggio nel nord-est. Per un 61enne è stata la prima volta nella sua vita vedere qualcuno che rappresenti lo Stato centrale.
Nel 2018 il 75% dei dipendenti pubblici (inclusi insegnanti ed infermieri) lavorava nella capitale. Il governo ha impegnato per i loro stipendi l’80% della sua spesa complessiva, anche se nella capitale vive solo il 13% della popolazione totale.
Le autorità, in effetti, hanno affidato la guerra fuori dalla capitale alla Francia e all’ONU, ritirando le loro forze da gran parte del Paese. Non a caso nelle aree dove non c’è lo Stato la criminalità è diffusa e i jihadisti hanno preso piede garantendo sostegno e giustizia, anche se in maniera brutale.
Anche in Burkina Faso e Niger i jihadisti prosperano dove lo Stato è assente o è stato cacciato. Dal 2018 gli insorti hanno assassinato circa 300 funzionari governativi in quelle terre di confine. Gli analisti internazionali pensano che per sconfiggere i jihadisti non occorre la forza ma occorre far conquistare legittimità allo Stato migliorando la governance e lo sviluppo economico.
Il punto è proprio questo, ma quale Stato legittimare? Nel 2020, dopo che il governo ha rivendicato la vittoria in una dubbia elezione legislativa, migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro i brogli elettorali e per rivendicare un evidente deterioramento della sicurezza. Vinse, con l’ombra del colpo di Stato, il colonnello Assimi Goïta che, nonostante le promesse di tenere nuove elezioni entro 18 mesi, si è poi saldamente insediato al Governo nazionale.
La narrativa dei golpisti afferma che occorre molto tempo per “rifondare” lo Stato dopo anni di corruzione e malgoverno. Molti maliani ci credono, lo dimostra un sondaggio tra i residenti di Bamako a settembre scorso: il 75% si fida di questo governo e vuole rinviare le elezioni.
Il generale Marc Conruyt, che di recente ha comandato le forze francesi nella regione, sostiene che “lo sconvolgimento politico e le difficoltà politiche a Bamako hanno avuto un impatto molto, molto limitato” sulle operazioni militari. Ma potrebbe non durare. Il governo locale, per affermare il proprio consenso, ha spesso accusato i francesi di addestrare i jihadisti. Dopo il parziale dispiegamento delle truppe francesi, hanno preso piede i mercenari della compagnia privata russa Wagner.
Dall’altra parte c’è lo Stato nello Stato. Molti jihadisti sono figure politiche vere e proprie con un seguito non trascurabile. Iyad Ag Ghali, il leader di ]ama’at Nasr al-Islam wal Muslimin, legato ad al-Qaeda, non è stato sempre jihadista, agli albori della sua ascesa era uno dei leader dei ribelli tuareg. Non è un caso che molti jihadisti nel nord del Mali rimangono legati ai gruppi separatisti tuareg.
Nel Mali centrale, dove la violenza ora è peggiore che nel nord, i jihadisti hanno sfruttato le spaccature tra le comunità e si sono posti come difensori dell’etnia Fulani. Milizie come Dan Na Ambassagou (“Cacciatori che confidano in Dio”) affermano, invece, di difendere altri gruppi etnici.
Una dinamica simile sta lacerando il tessuto sociale in Burkina Faso e Niger. La pace richiede non solo scuole e ospedali, ma anche idee su come condividere al meglio il potere tra le comunità multietniche. Molti maliani credono che i colloqui con i jihadisti potrebbero fornire alcune idee. La Francia, che ha perso oltre 50 soldati nel Sahel dal 2013, si oppone a questa idea. Tuttavia, ci sono stati molti accordi di pace locali in Mali e molti anche in Burkina Faso. Alcuni sono tra gruppi etnici in conflitto, ma altri includono i jihadisti. I negoziati politici di alto livello tra il governo del Mali e alti leader jihadisti richiedono un considerevole salto di qualità tra i negoziati. In molti sostengono che i francesi non siano favorevoli ad un avvicinamento tra le parti anche se la stabilità del Sahel è strettamente legata alla stabilità del Mali e chiunque dovrebbe favorire processi di stabilizzazione e crescita per Paesi che da soli non andranno mai da nessuna parte.