di Antonio Adriano Giancane
Dopo più di un decennio di devastante guerra civile e la caduta del regime di Bashar al-Assad, la Siria si trova ad affrontare un momento cruciale della sua storia. Conosciuta come il “cuore dell’Arabia” per il suo ruolo strategico nel Levante e nel mondo arabo, il Paese è ora chiamato a compiere delle scelte importanti e a confrontarsi con sfide immense per avviare una ricostruzione politica e sociale che non solo condizioneranno il futuro del Medio Oriente, ma potranno anche ridefinire gli equilibri politici e sociali della regione.
La transizione è iniziata l’8 dicembre con la deposizione di Assad, conseguenza di un’offensiva dell’Organizzazione per la Liberazione del Levante (HTS). Tuttavia, le profonde divisioni interne, le tensioni geopolitiche e l’urgenza di ripristinare ordine e stabilità evidenziano quanto il processo di normalizzazione sia ancora distante dall’essere compiuto.
A Homs, una delle città simbolo del conflitto, il nuovo governo ha avviato una vasta operazione di rastrellamento, cercando di individuare criminali di guerra e latitanti. Con coprifuochi imposti e appelli alla cooperazione da parte della popolazione locale, le autorità tentano di ristabilire un controllo capillare. Tuttavia, l’Osservatorio siriano per i diritti umani denuncia l’arresto di individui accusati di crimini minori, come il traffico di droga, e di presunti istigatori delle recenti proteste come quelle scatenatesi dopo un attacco a un tempio alawita, le quali testimoniano come le ferite del conflitto siano ancora vive e profonde.
Nel quadro internazionale, la Siria è divenuta un campo di confronto per le principali potenze regionali e globali. Iran e Russia appaiono tra i maggiori perdenti della transizione: Teheran ha visto ridursi significativamente la sua influenza nella regione, mentre Mosca, pur mantenendo alcune basi militari, deve fare i conti con un ruolo ridimensionato.
Al contrario, la Turchia emerge come uno degli attori vincenti. Rafforzando i rapporti con il nuovo governo siriano, Ankara punta a facilitare il ritorno di milioni di rifugiati siriani e a consolidare la propria influenza nella politica interaraba.
Gli Stati Uniti, guidati dall’amministrazione Biden, hanno adottato un approccio pragmatico, rimuovendo la taglia sul leader dell’HTS, Ahmad al-Shara, e promettendo aiuti rapidi. Questo intervento potrebbe incentivare anche gli Stati del Golfo a contribuire alla ricostruzione. Tuttavia, persistono rischi significativi, come le incursioni israeliane, che potrebbero alimentare un pericoloso estremismo anti-israeliano.
La Siria non deve solo ricostruire infrastrutture distrutte, ma anche guarire un tessuto sociale e politico profondamente lacerato. Con oltre 500.000 morti, tra cui migliaia di donne e bambini, e milioni di rifugiati e sfollati interni, il percorso verso una stabilità duratura appare lungo e tortuoso.
Il destino della Siria sarà cruciale per la stabilità del Medio Oriente. Solo un equilibrio delicato tra riconciliazione interna e collaborazione internazionale potrà evitare nuove dittature o ulteriori conflitti. La Siria, dunque, non è solo un Paese in ricostruzione, ma un simbolo delle speranze e delle sfide di un’intera regione in cerca di pace.
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