(di Prof.ssa Barbara Faccenda) Ci vorranno anni prima che le ripercussioni complete della decisione di Trump di recedere dall’accordo sul nucleare con l’Iran, siano chiare – se conterrà l’aggressione regionale iraniana e il programma nucleare o li alimenterà .
Analizzando la logica della decisione di Trump, si comprende come essa sia frutto di una strategia basata su supposizioni.
La prima: le parti che hanno negoziato l’accordo del 2015 con l’Iran – gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Russia, la Francia, la Cina, la Germania e l’Unione Europea – avrebbero potuto discutere maggiori restrizioni sulle attività regionali dell’Iran e ridurre il programma nucleare di Teheran ben oltre i 13 anni stabiliti nell’accordo. Non c’è modo di sapere se ciò sia vero. Il regime iraniano stava affrontando una pressione interna immensa e aveva bisogno che fossero rimosse le sanzioni; vi sono poche indicazioni che avrebbe potuto concedere di più di quanto fece. Come molte supposizioni strategiche, questa è più basata su opinioni o credenze che su prove tangibili.
Una seconda supposizione è che gli Stati Uniti possano, ora, aumentare la pressione sull’Iran e obbligarlo a quella sorta di concessioni di vasta portata che l’amministrazione Obama non poteva o non voleva ottenere. Ciò sembra fortemente discutibile visto che richiederebbe la cooperazione di molte nazioni per essere effettiva e dunque spingere l’Iran a fare concessioni su ciò che considera i suoi interessi nazionali vitali. Come dimostra la guerra del Vietnam, anche una nazione più debole,  è improbabile che ceda sotto la pressione americana quando sono in gioco i suoi interessi vitali nazionali.
Resta difficile scorgere come sia possibile che gli Stati Uniti promuovano i loro interessi nazionali o “mettano l’America prima”, recedendo dall’accordo sul nucleare con l’Iran.
I sostenitori dell’approccio di Trump suggeriscono che il vero obiettivo non è obbligare l’Iran a concessioni più grandi, ma di indebolirlo così tanto che il regime cada. Mentre è vero che molti iraniani, particolarmente i giovani, detestano profondamente i loro governanti teocratici, non vi è nessuna ragione reale per credere che sia imminente un cambio di regime, o quand’anche accadesse, che il sostituto sia migliore per gli Stati Uniti. Anche questa posizione è basata più su un’opinione o credenza che su prove concrete.
Una terza supposizione è che gli Stati Uniti possano sia apporre pressione su altre nazioni nel ripristinare e rafforzare le sanzioni sull’Iran, sia ottenere concessioni da Teheran. Anche questo è discutibile. Quand’anche l’amministrazione Trump sia in grado di ottenere una qualche cooperazione dalle nazioni europee, ad esempio impedendo alle società di fare affari con l’Iran pena il diniego di accesso al mercato statunitense, è improbabile che la Russia e la Turchia seguano questa strada. Sarebbe quasi impossibile mettere assieme il fronte unificato che spinse l’Iran verso l’accordo del 2015.
Anche all’interno degli Stati Uniti, il sostegno per l’approccio di Trump potrebbe sbriciolarsi se i cittadini americani perdono il posto di lavoro a causa della cancellazione dei contratti iraniani, soprattutto in grandi aziende come la Boeing, o se si verificherà un aumento dei prezzi del petrolio a livello globale.
I costi economici della recessione dall’accordo con l’Iran dovrebbero essere avvertiti dagli Stati Uniti nelle elezioni di medio-termine, più tardi quest’anno, contribuendo ad aumentare i problemi che il partito Repubblicano già deve affrontare e, che questi costi continueranno a salire per la corsa elettorale del 2020.
L’approccio di Trump verso l’Iran, fondamentalmente, dà per scontato che il recesso dall’accordo sul nucleare non abbia effetti avversi al di fuori del Medio Oriente. In realtà , la Corea del Nord con tutta probabilità concluderà che non può contare sull’adesione degli Stati Uniti a nessun accordo che limiti il suo programma nucleare, perciò rendendo Kim Jong-un meno propenso ad un serio accordo con l’amministrazione Trump.
Per ora, l’Iran ha indicato che continuerà ad ottemperare alle restrizioni. Il ritiro degli Stati Uniti, che riflette politiche domestiche più che una qualsiasi sorta di strategia coerente per il Medio Oriente, potrebbe, rompere relazioni con alleati chiave, aumentando le probabilità di un’azione militare degli Stati Uniti, una volta che diventa chiaro che l’Iran non permetterà più grandi restrizioni sul suo programma nucleare, rispetto a quelle già contenute nell’accordo.
Questo a sua volta, alimenterà la crescente percezione dell’inaffidabilità degli Stati Uniti e la diminuzione dell’influenza sia nel Medio Oriente che a livello globale.
Essenzialmente, i soli vincitori potrebbero essere i più decisi nemici dell’Iran: Israele e l’Arabia Saudita.