Utilizzare i fondi del Recovery Fund per una riconversione produttiva-ecologica incentrata sugli investimenti verdi nel Mezzogiorno, a partire dall’ex Ilva di Taranto. È la proposta di Svimez presentata ieri durante le audizioni nelle commissioni Bilancio e Politiche dell’Unione europea. Secondo i dati sviscerati dall’Istituto, la chiusura della più grande fabbrica del Sud provocherebbe, considerando gli effetti diretti, indiretti e indotti, un impatto sul Pil italiano di 3,5 miliardi di euro, di cui 2,6 miliardi concentrata al Sud e i restanti 0,9 miliardi nel Centro-Nord.
Un impatto negativo si avrebbe soprattutto sulle esportazioni (-2,2 miliardi) ma anche sui consumi delle famiglie (-1,4 miliardi), considerando il significativo impatto del venir meno degli stipendi degli addetti dello stabilimento, dell’indotto diretto e degli effetti occupazionali del rallentamento dell’economia. Il Tar di Lecce, dieci giorni fa, ha disposto la chiusura dell’area a caldo per un rischio per la salute dei tarantini.
A rischio ci sono 10mila posti di lavoro, senza calcolare l’indotto. «Si ritiene – si legge nella relazione della Svimez – che la strategicità dell’impianto per l’intera filiera siderurgica italiana e per la stessa prospettiva industriale del Mezzogiorno richieda il massimo sforzo, anche finanziario, per garantire una soluzione ambientalmente sostenibile. Le risorse europee, insieme alla partecipazione diretta di soggetti pubblici, possono essere mobilitate per accompagnare quel processo di eco-conversione dell’impianto che può assicurare la continuità produttiva, in sicurezza. Evitando il rischio di un abbandono dagli enormi costi economici e sociali, che replicherebbe la fallimentare esperienza di una bonifica infinita come avvenuto in altre aree del Sud, quale Bagnoli».
Arcelor Mitta, che nel frattempo ha presentato ricorso al Consiglio di Stato, ha meno di 60 giorni per fermare gli impianti dell’area a caldo del siderurgico di Taranto perché è «a rischio la salute pubblica». La decisione che potrebbe cambiare la storia dell’ex Ilva è stata presa dal Tar di Lecce 10 giorni fa, i giudici hanno respinto i ricorsi proposti da ArcelorMittal e Ilva in As contro l’ordinanza numero 15 del 2020, firmata dal sindaco di Taranto Rinaldo Melucci, che imponeva ai gestori l’individuazione e il superamento delle criticità derivanti da fenomeni emissivi dello stabilimento siderurgico, disponendo, in difetto, la fermata dell’area a caldo.
Gli effetti dell’ordinanza sindacale erano stati sospesi il 24 aprile 2020 in accoglimento delle istanze di ArcelorMittal e Ilva in As con due provvedimenti-gemelli, poi riuniti, che prevedevano una serie di atti istruttori da compiersi entro lo scorso 7 ottobre. Il termine per «procedere a ulteriori accertamenti e verifiche al fine di individuare preliminarmente le anomalie di funzionamento», sottolinea il Tar, deve ritenersi «ormai irrimediabilmente decorso».
Dalle risultanze acquisite «con la disposta istruttoria – viene puntualizzato nella sentenza – si evince altresì che tali criticità e anomalie possono ritenersi risolte solo in minima parte e che, viceversa, permangono astrattamente le condizioni di rischio del ripetersi di siffatti gravi accadimenti emissivi, i quali del resto non possono certo dirsi episodici, casuali e isolati». Deve «pertanto ritenersi pienamente sussistente», evidenziano i giudici, «la situazione di grave pericolo per la salute dei cittadini, connessa dal probabile rischio di ripetizione di fenomeni emissivi in qualche modo fuori controllo e sempre più frequenti, forse anche in ragione della vetustà degli impianti tecnologici di produzione».
Tornando alla relazione di Svimez sul Recovery, secondo l’istituto il Piano nazionale «approvato dal precedente Esecutivo lo scorso 12 gennaio attualmente al vaglio del Parlamento, pur presentando apprezzabili miglioramenti rispetto alla precedente bozza, non presenta una chiara visione sul contributo che il Mezzogiorno può dare alla ricostruzione del Paese».